Dario il Grande, una 
                  lezione storica
                  Persecuzioni, emigrazione e accoglienza
                Pubblicato 
                  su "Vita e Pensiero. Bimestrale dell'Università 
                  Cattolica di Milano".
                  E idem sul quotidiano Europa, Roma, 17/5/2008
                  
                Non 
                  bisogna mai mettere un uomo nella condizione di non aver niente 
                  da perdere.
                  Aforisma zingaro, secolo XIX
                La dea Anahid 
                  e l’inizio della storia
                È una dea che possiede mille laghi 
                  e mille fiumi. Sulle rive di questi laghi sono state costruite 
                  magnifiche case, ognuna delle quali ha cento finestre luccicanti 
                  e mille colonne magnifiche e ogni casa posa su una piattaforma 
                  di mille pilastri (dall’Avesta, libro sacro dello zoroastrismo, 
                  Yasht, 6).
                La dea Anahita (in lingua pahlavide, 
                  l’antica lingua persiana), Nahid (in persiano moderno 
                  e contemporaneo) e Anahid (in armeno) era adorata particolarmente 
                  dalle giovani donne e dalle ragazze di religione zoroastriana 
                  (persiane, armene, assire, caldee, azere ecc.), in quanto custode 
                  delle acque, della fertilità e della vita. Era la dea 
                  della verità e giustizia, talvolta anche della castità, 
                  e il suo culto si diffuse quasi come una religione su tutto 
                  il territorio caucasico, iraniano e dell’Asia Minore, 
                  ovvero Anatolia (in greco Anatolì, Oriente), dove disponeva 
                  di numerosi santuari. Santuari ricchissimi – visto che 
                  erano venerati non soltanto dai re e dalla classe dirigente 
                  iraniana e/o armena, ma anche dai popoli limitrofi, fino al 
                  lontano Rajastan, in India.
                  La pianura di Teheran era dedicata alla dea e comprendeva anche 
                  l’antica città di Rey (Raga o Rages in latino, 
                  Rhagae in greco), fondata nel X secolo a.C. e posta sulla Via 
                  della Seta. Di questi santuari oggi rimangono scarse tracce. 
                  In Iran, a Kangavar, villaggio situato nel lontano Kermanscià, 
                  nel profondo sud del paese, sopravvive un solo tempio che come 
                  struttura architettonica somiglia in modo straordinario ai grandi 
                  templi greco-romani conosciuti. In Iran questi templi, assieme 
                  a quelli zoroastriani, sono stati rasi al suolo – dapprima, 
                  e con grande accanimento, da Alessandro Magno e successivamente 
                  dagli arabi islamici sunniti (nell’VIII secolo) e poi 
                  dal mongolo Tamerlano, detto Timur lo Zoppo, nel 1220.
                  L’Islam sciita, che perseguiterà gli zoroastriani 
                  lungo tutta la storia iraniana, ha comunque dimostrato un certo 
                  rispetto per i templi della dea Anahita. A Yazd – città 
                  situata nel centro dell’Iran, che fu un importante centro 
                  zoroastriano e oggi è abitata da qualche “sopravvissuto” 
                  – ci sono i ruderi di piccoli templi quadrati dedicati 
                  a Bi-bì Sciahr-banù o Shahr-zad, la “Signora 
                  della città”, ovvero la Regina Anahita, e accanto 
                  a vari altri ruderi anche un tempio dedicato a Vahram (il Vittorioso, 
                  l’indistruttibile). Sul modello della dea Anahita, l’Islam 
                  sciita a sua volta dedicò varie città alle figure 
                  femminili sante o santificate: la città santa di Ghom 
                  (nell’Iran centrale) alla sciita Santa Masumè; 
                  Damasco alla Santa musulmana sunnita Zeynab; persino la Medina, 
                  che si trova in Arabia, nel cuore dell’Islam sunnita, 
                  a Donna Fatemè, figlia del profeta Mohammad. Anche gli 
                  armeni, dopo averla intitolata in un primo tempo ad Aramazd 
                  (ossia lo zoroastriano Ahura-Mazda), consacrarono alla dea la 
                  città di Anì (“Città di una e mille 
                  chiese”, oggi in Turchia).
                La città 
                  di Rey: una città sfortunata
                La sfortuna si accanì contro la 
                  città di Rey, sacra a Malek (“Regina del Paese 
                  Anahita”), posta 50 chilometri a est dell’attuale 
                  Teheran e fondata nel IX secolo a.C.: Alessandro Magno la diede 
                  alle fiamme con tutti i codici che vi si trovavano; assassinò 
                  tutti i Mogh (“Mago”, Magos in greco, ovverosia 
                  componente del clero zoroastriano), distrusse i templi e l’intera 
                  città. Secondo lo storico greco Strabone un pesante terremoto 
                  completò l’opera. Più tardi, nel 312-280 
                  a.C., il greco Seleucus Nikater ricostruì la città 
                  e la ribattezzò con il nome di Europos (Europa), erigendo 
                  nelle vicinanze altri tre centri. Uno lo chiamò Apamea 
                  in ricordo di sua madre. Gli altri due furono distrutti dagli 
                  arabi nell’VIII secolo e successivamente dai mongoli (XIII 
                  secolo), e oggi di essi non rimane memoria.
                  Al pari delle sue “sorelle”, la città di 
                  Rey cadrà dapprima sotto giogo arabo e poi sotto quello 
                  del mongolo Tamerlano, che invase l’Iran nel Trecento 
                  (1219-1223). I sopravvissuti alla distruzione della multietnica 
                  Rey – c’erano gli sciiti con le loro filiazioni, 
                  quasi una ventina, i musulmani sunniti con due derivazioni, 
                  gli ebrei, gli armeni con due diramazioni (chiesa armena e chiesa 
                  armena cattolica), i georgiani (idem come gli armeni); c’erano 
                  i Lori, gli zoroastriani di varie risme, i bakhtiyari, ecc. 
                  – si riversarono in due villaggi: Teheran (oggi capitale 
                  dell’Iran, conta all’incirca 12 milioni di abitanti) 
                  e Mehran (“Città amorosa”, oggi cancellata 
                  dalle mappe). La città di Rey aveva quasi 450mila abitanti 
                  (un’enormità per quei tempi). Gli ebrei, i persiani-zingari 
                  e gli armeni presero la via verso nord – dapprima verso 
                  il Caucaso, l’Asia Minore e i dintorni del Mar Nero e 
                  poi verso i Balcani e l’Europa, portando con sé 
                  una quantità di mestieri “universalmente validi”, 
                  mestieri cioè che nel caso di emigrazione e cambio del 
                  paese non sono soggetti a perdere la loro validità. Ad 
                  esempio se un avvocato cambiasse proprio paese, dovrebbe iniziare 
                  tutto daccapo e per prima cosa apprendere una nuova lingua; 
                  non così un dentista. I persiani transumanti, che comunque 
                  erano sedentari, divennero zingari, ovvero “girovaghi” 
                  e diffusero in tutto il mondo la musica; gli ebrei fecero lo 
                  stesso con la finanza – crearono due nuovi stati ebraici 
                  nel Nord: Khazero sulla litorale del Mar Caspio ed Eshkenazita 
                  (da non confondere con gli Eskenaziti europei) sulle rive del 
                  Mar Nero e del Mar d’Azov. Gli armeni si concentrarono 
                  sulla medicina e sull’architettura, e così via. 
                  Nei secoli successivi e nel XIX-XX secolo tutte e tre queste 
                  etnie, com’è noto, vennero pesantemente perseguitate.
                Gli zingari e 
                  la musica, mestiere per emigranti
                Fin dai tempi più remoti gli zingari, 
                  di razza indo-europea, si occupavano della musica e del ballo. 
                  Secondo una mitologia diffusa fra tutti i popoli mediorientali 
                  e particolarmente nell’ambito dello zoroastrismo, il mondo 
                  iniziò per volontà divina con un big-bang musicale. 
                  E la Terra, a sua volta, ha bisogno di ricordare costantemente 
                  l’attimo della propria creazione. Ogni giorno occorre 
                  battere coi tacchi per terra e suonare e cantare qualcosa. Così 
                  nacquero il canto e la danza e la musica, sia in ambito religioso 
                  che in ambito popolare. Lo zoroastrismo glorificava il creatore 
                  facendo ballare in tondo attorno al fuoco sacro i mogh (“maghi”, 
                  preti zoroastriani), che procedevano lungo la figura di una 
                  swastica (segno di croce ruotante). Un simbolo che si diffuse 
                  sia tra i cristiani d’Oriente che tra i monaci bizantini, 
                  fino ai sufi dell’Islam sciita e sunnita. Oggi come oggi, 
                  ma ormai in modo del tutto alienato – spesso per mero 
                  diletto dei turisti – i sufi musulmani sunniti di Turchia 
                  ballano e danzano ancora in identico modo.
                  La swastica con le braccia uncinate verso sinistra, in senso 
                  antiorario, è simbolo del sole e della vita; se invece 
                  le braccia sono orientate in senso orario di rotazione (su-wastika) 
                  è simbolo della morte e della distruzione.
                La formazione 
                  di un popolo: una storia di cavalli e di musica
                Gli zingari persiani-zoroastriani aderirono 
                  alla figura della dea Anahita, che si presentava, sempre nell’ambito 
                  dello zoroastrismo, sintetizzandosi a mo’ di nuova religione. 
                  Portarono in giro come Parola di Dio i canti e la musica in 
                  tutto il Medio Oriente – sempre ballando su un tracciato 
                  a forma di svastica, cioè di croce ruotante –, 
                  giungendo fino in Spagna e anche oltre. Si spostarono senza 
                  fatica poiché, pur essendo in origine sedentari, seppero 
                  tramutarsi in transumanti, occupandosi prevalentemente dell’allevamento 
                  di mandrie di cavalli per l’esercito persiano e altri 
                  eserciti dell’area.
                  I cavalli a cui si dedicavano erano in maggior parte cavalli 
                  armeni, originari del Gharabagh (ghara, in turco, “nero”; 
                  bagh, in persiano, “giardino”, oggi in russo Nagorno-Karabak), 
                  dal mantello giallo oro, nero, fulvo o bianco, provvisti della 
                  particolarità che l’altitudine di quelle montagne 
                  non procurava loro nessuna vertigine, evitando così cadute 
                  rovinose per il cavallo e il cavaliere. In effetti lo zoroastrismo 
                  curò in modo spasmodico l’allevamento e l’addestramento 
                  dei cavalli, vietando tassativamente qualunque utilizzo a scopo 
                  alimentare degli animali da soma (asini, cammelli, muli, cavalli 
                  e addirittura vacche e buoi) e promuovendone altresì 
                  la tradizione – che resiste ancor oggi in molti Paesi 
                  mediorientali, persino nel seno di altre religioni come il cristianesimo 
                  orientale, l’induismo, l’Islam ecc. Gli Sciti (popolazioni 
                  storiche della Siberia del sud e del Caspio settentrionale) 
                  per le loro scorribande nelle steppe poterono disporre di cavalli 
                  persiani specializzati nel fiutare la neve scovando l’erba 
                  fresca nascosta sotto la crosta di ghiaccio.
                Storia di una 
                  persecuzione millenaria
                Nel XIII secolo gli zingari persiani 
                  rifiutarono di vendere i propri cavalli a Tamerlano e ad altri 
                  Khan mongoli, rimanendo fedeli all’impero persiano e ai 
                  popoli dell’area. I cavalli mongoli si rivelarono del 
                  tutto inadatti ad attraversare il Caucaso, che costituisce un 
                  muro fortificato naturale di difesa, com’era già 
                  successo con gli arabi, che si erano vendicati radendo al suolo 
                  tutta la piana armena. In tal modo fu impedita loro la penetrazione 
                  verso i Balcani e l’Europa. Lo stesso vollero fare i Mongoli, 
                  ma i monti caucasici per i loro cavalli erano insuperabili e 
                  per penetrare in Russia e in Europa furono costretti a trovare 
                  una via settentrionale costeggiando il Mar Caspio, perseguitando 
                  gli zingari ogni volta che se ne presentò l’occasione 
                  in quanto distruttori del progetto – nato sulle orme di 
                  Alessandro Magno – di creare un impero mongolo d’Oriente 
                  e Occidente (ovvero Eurasia: un impero che si sviluppava tra 
                  due oceani – dall’Atlantico al Pacifico – 
                  e che avrebbe dovuto comprendere tre continenti, l’Europa, 
                  l’Asia centrale e periferica e la Cina). Più avanti 
                  gli zingari transumanti della città di Rey e dintorni 
                  si convertirono quasi tutti al cristianesimo e si fecero ribattezzare 
                  rom: termine arabo che significa “greci e/o romani”, 
                  ovvero “gente d’Occidente”.
                  Le fila di costoro vennero irrobustite con l’aggiunta 
                  dei koulì persiani – cioè “gente con 
                  averi sulle spalle”, che storicamente erano dei vagabondi 
                  che rigettavano la proprietà privata e vivevano in tende 
                  allestite fuori delle mura delle città. I koulì 
                  giravano per il paese e diffondevano la danza, esordendo con 
                  le braccia alzate, in segno di glorificazione di Ahura-Mazda; 
                  rigettavano le altre religioni rivelate, poiché contrarie 
                  alla danza e alla musica, come l’ebraismo e il cristianesimo 
                  orientale e l’Islam sciita. Provvedevano ad accompagnare 
                  con canti e musiche le feste e i matrimoni, portandosi dietro 
                  i loro strumenti musicali un po’ dovunque, organizzando 
                  spettacoli teatrali – per certi versi paragonabili a quelli 
                  circensi –, allettando gli spettatori con la lettura della 
                  mano e del futuro. Erano specializzati nella fabbricazione di 
                  strumenti musicali a fiato e nella lavorazione del rame per 
                  usi domestici, per confezionare talismani di buon augurio matrimoniale, 
                  salute o lunga vita. Si spinsero verso il Mar Caspio e il Mar 
                  Nero. A costoro si unirono i cantautori del Caucaso coi loro 
                  tar (strumento simile alla chitarra), i cantautori-poeti detti 
                  Asciugh (“innamorati” o “pazzi di Dio” 
                  in arabo, ashik in turco, asciugh in armeno), poliglotti, colti 
                  e provenienti da tre villaggi situati nel cuore dell’Armenia 
                  orientale. Vagabondi – simili ai dervisci ma esclusivamente 
                  laici – diffondevano in ogni dove, insieme agli zingari 
                  e ai koulì, la filosofia, la storia, la poesia e l’amore, 
                  dapprima verso il Caucaso, poi verso l’Asia Minore, seguendo 
                  le rotte balcaniche fino all’Europa settentrionale, percorrendo 
                  anche la rotta verso ovest, in direzione della Francia del Sud 
                  fino alla Spagna e al Portogallo, contribuendo alla formazione 
                  di vari flamenchi, sempre portando con sé le strutture 
                  occorrenti per i loro spettacoli e ogni tipo di strumento musicale. 
                  A partire dal 1880 arrivarono addirittura negli Stati Uniti.
                  Gli europei a loro volta perfezionarono tutta questa eredità 
                  ricevuta dall’Oriente, e dal Rinascimento svilupparono 
                  ed elaborarono proprie musiche, canti e balli attraverso la 
                  diffusione seguita a quella lontana emigrazione dalla città 
                  di Rey e dintorni. Se non ci fossero stati questi zingari indo-europei, 
                  oggi ad esempio forse non ci sarebbe stato un Bach, un Liszt, 
                  uno Hummel, un Brahms, un Ciajkowskij, un Rakhmaninov, un Bela 
                  Bartok, un Frédéric Chopin, un Wagner. E per quanto 
                  riguarda i secoli successivi Adolf Hitler – per non essersi 
                  trovato i Mongoli come vicini di casa e come compenso per ringraziarli 
                  – nel 1944 organizzò una “Notte Tzigana”, 
                  massacrandoli a più non posso e bruciandoli nei forni 
                  crematori di Dachau, Mauthausen, Auschwitz, Birkenau (quest’ultimo 
                  era un campo speciale riservato agli zingari). Il numero esatto 
                  non si sa, ma qualcuno mormora: da due a quattro milioni. Lenin 
                  e Stalin da parte loro ne mandarono parecchi a spaccare le pietre 
                  nei gulag sovietici (il numero preciso non si conosce, qualcuno 
                  parla di circa di un milione e mezzo di persone). Ugualmente 
                  si ignora a tutt’oggi il numero esatto dei giovani e dei 
                  pupi che finirono nelle mani del Dr Joseph Mengele come materia 
                  prima per i suoi “esperimenti”.
                «Quando il bastone divino colpisce, 
                  generalmente non fa rumore»
                  Aforisma armeno, XIX secolo
                Anche la “civilissima Svizzera” 
                  cercò di sedentarizzare gli zingari, togliendo loro i 
                  figli per annientare in modo soft la discendenza e la prosecuzione 
                  della razza e sterilizzando anche le donne. Ma il buon Dio – 
                  ovvero Ahura-Mazda – non donò agli svizzeri né 
                  un compositore, né una poesia, né una musica, 
                  né un canto o una danza degni di nota.
                Il modello svizzero ebbe un certo successo: 
                  le sterilizzazioni di massa degli zingari Rom, Sinti e Kali 
                  ebbero luogo anche in Ungheria, in Cecoslovacchia, in Bulgaria 
                  e in Spagna.
                  Un altro colpo di grazia fu predisposto dalla Nato e dai suoi 
                  comprimari europei nella ex Yugoslavia e nei Balcani. Oggi i 
                  discendenti di questo popolo sono ridotti alla miseria e si 
                  trovano sparsi in vari paesi europei: suonano nei metrò, 
                  praticano l’accattonaggio e talvolta rubacchiano a destra 
                  e a sinistra per racimolare qualche soldo (a parte qualcuno, 
                  come Goran Bregovic, che può dire di avercela fatta). 
                  Nel 1970 avevo preso parte a un matrimonio zingaro in Romania, 
                  e volevamo, con l’amico musicista Ludwig Bazil , organizzare 
                  un concerto a Milano per mettere l’accento sulle origini 
                  della musica occidentale. Alla fine non ci riuscimmo perché 
                  a Milano vi fu un “grande rogo”, battezzato in seguito 
                  “Mani pulite”, e l’assessore comunale alla 
                  cultura Guido Aghina, che avrebbe potuto aiutarci a realizzare 
                  il nostro bel progetto, dovette abbandonare il suo posto.
                «Quando una foresta brucia, 
                  cespugli maleodoranti e innocenti grandi alberi di noce bruciano 
                  insieme»
                  Aforisma degli zingari armeni, XIX secolo
                D’altronde questa eredità 
                  musicale è così immensa che il governo islamico 
                  dell’Iran ha creato un istituto di ricerca che già 
                  ha pubblicato i primi tre volumi di una Encyclopaedia of the 
                  Musical Instruments of Iran a cura di Mohammad-Reza Darvishi, 
                  prevista in dieci volumi; ogni volume è di grande formato 
                  e di quasi 600 pagine.
                Persecuzioni, 
                  emigrazione e accoglienza
                  L’imperatore persiano Dario il Grande: una lezione storica
                Nell’autunno del 2003 Bahram Ghassemi, 
                  ex ambasciatore persiano a Roma, organizzò una cerimonia 
                  in occasione del conferimento di un’onorificenza per meriti 
                  culturali al sottoscritto. Nel salone di ricevimento delle autorità 
                  dell’ambasciata trionfava appeso al muro, per onorare 
                  un concittadino cristiano, un grande tappeto persiano antico, 
                  pulito e restaurato per l’occasione, che raffigurava L’Ultima 
                  Cena. E mi disse: «Proprio non capisco il perché 
                  del mugugno italiano circa le problematiche dell’emigrazione 
                  straniera in Italia, che è di consistenza tanto scarsa. 
                  Dall’Afghanistan, nel corso della guerra con l’Unione 
                  sovietica, a noi arrivarono in un colpo solo circa due-tre milioni 
                  di persone. Non sappiamo e non sapremo mai il numero esatto. 
                  Comunque era gente che aveva fatto la guerra per lunghissimi 
                  anni, gente affamata, gente piena di rabbia, che ci ha fatto 
                  vedere i sorci neri. Eppure in qualche modo siamo riusciti a 
                  dare a tutti un tetto, o almeno un bugigattolo, e a organizzare 
                  scuole per i pupi e per la gioventù sotto le tende, perché 
                  non disponevamo di un numero sufficiente di edifici vuoti. È 
                  noto quanto siano fondamentali asili e scuole per “contenere” 
                  un’immigrazione selvaggia, partendo da pupi e dai giovanissimi. 
                  Comunque i soldi spesi per l’accoglienza sono sempre un 
                  terzo di quelli spesi per la sicurezza e da sempre hanno dato 
                  risultati migliori. Quello che a noi dispiace, è che 
                  non abbiamo potuto mettere le mani sulla “crema afghana”, 
                  cioè sull’aristocrazia, sull’intellighentsja, 
                  sui laureati in genere, sui medici ecc. In compenso, qualche 
                  tempo dopo ci sono riusciti gli americani».
                L’imperativo dell’accoglienza 
                  fu la grande lezione politica dello zoroastriano achemenide 
                  Dario il Grande, E successivamente divenne un imperativo politico 
                  in tutte le aree del Medio Oriente e fu seguito da quasi tutti 
                  i sovrani persiani – così come da quelli degli 
                  altri paesi limitrofi mediorientali – nell’arco 
                  della loro lunga storia. Dario stesso fece emigrare dalla Palestina 
                  quasi cinquantamila ebrei per impostare l’amministrazione 
                  dell’Impero persiano. E una volta terminato il lavoro, 
                  il suo successore Ciro il Grande ricostruì anche il tempio 
                  ebraico di Gerusalemme e lasciò che gli ebrei tornassero 
                  a casa, donando a ciascuno un sacchetto d’oro. Ciro dagli 
                  ebrei ottenne il titolo divino di “Unto del Signore”
                Qualche milione di armeni sopravvissuti 
                  al genocidio del 1914-18 giunse in Iran, Iraq, Siria, Libano, 
                  Cipro, e perfino in Etiopia, Egitto e Libia. In questi paesi 
                  trovò sempre porte aperte all’accoglienza, insieme 
                  a documenti personali, orfanotrofi, “case per donne sole 
                  con bambini sopravissuti”, lavoro e il permesso di costruire 
                  proprie scuole e chiese.
                Su questo modello si muoverà anche 
                  l’Algeria dopo l’indipendenza, visto che c’era 
                  tanta gente d’origine medio-orientale, laureata e disponibile, 
                  sparsa a macchia di leopardo in tutti i paesi europei, arrivata 
                  per completare gli studi superiori e poi impossibilitata a tornare 
                  a casa. Costoro avevano problemi con i propri sistemi governativi 
                  (ovvero con le dittature mediorientali). Generalmente la loro 
                  colpa fu che erano portatori di pezzettini di democrazia di 
                  tutte le risme possibili e immaginabili: laici o religiosi che 
                  fossero.
                  L’Algeria indipendente trovò per loro un lavoro 
                  (spesso e volentieri nel campo dell’edilizia e dell’architettura) 
                  e una casa; in particolare seppe garantire la sicurezza fisica 
                  a tutti costoro e alle loro famiglie. Ma il “foraggiamento” 
                  dei “Fratelli musulmani” da parte della Francia 
                  portò infine a una guerra civile (circa 220mila morti 
                  – il numero esatto, ancora una volta, non lo sapremo mai) 
                  e sprofondò di nuovo il paese nel Medioevo. Il quale 
                  paese iniziò comunque a “sputare” petrolio 
                  e gas a favore dell’Occidente in generale e della Francia 
                  in particolare. Questi emigrati – spesso e volentieri 
                  anche persiani – finirono col ri-emigrare e vennero “risucchiati” 
                  dall’Europa e dagli USA.
                Nel 2006, su una banchina del metrò 
                  3 di Milano, incrociai un ragazzino Rom che suonava il violino 
                  come un mezzo genio, sotto lo sguardo di due “marcantoni” 
                  macedoni che intascavano i soldi, spesso e volentieri banconote, 
                  che i milanesi di passaggio estasiati da tanta maestria elargivano 
                  al ragazzino. Pensai che il ragazzino era destinato a un futuro 
                  infausto. Nessuno sarebbe occupato di lui se non per usarlo 
                  come un mezzo per estorcere denaro. Mi nacque allora una domanda. 
                  Qualcuno avrebbe mai sentito il nome di Giuseppe Verdi, se non 
                  ci fosse stato Antonio Barezzi di Busseto, che appoggiò 
                  e protesse il musicista, e più avanti addirittura lo 
                  fece sposare con la propria figlia? E Verdi, quanto lavoro e 
                  “fatturato” ha prodotto per l’Italia? Qualcuno 
                  dovrebbe prendere carta e matita e fare il calcolo. E Uto Ughi? 
                  Non accogliendo quel ragazzino l’Italia ha forse rinunciato 
                  a un fatturato futuribile, a un Uto Ughi II (lavoro, tasse e 
                  immagine). E oggi come oggi, escludendo il ragazzino anche dalla 
                  società e dalla scuola per avviarlo sulla strada, si 
                  è forse tentato di creare un futuro criminale e/o, nel 
                  caso peggiore, un terrorista?
                San Pietroburgo, alias Petrograd, alias 
                  Leningrado, è stata costruita grazie al lavoro degli 
                  italiani ed è quasi una città italiana trapiantata 
                  in Russia. Se non ci fosse stata l’emigrazione italiana, 
                  i russi non avrebbero mai potuto disporre di tale meraviglia, 
                  e nello stesso tempo gli italiani sono rimasti privi di quella 
                  magnifica città. L’incoraggiamento nei confronti 
                  dell’emigrazione italiana, che fu messo in atto nel secolo 
                  scorso, specialmente da parte dei Savoia, i quali scacciarono 
                  quasi gli italiani “poveri in canna e turbolenti” 
                  fu un grande tradimento verso l’Italia. Oggi come oggi, 
                  una massa di 55 milioni circa di italiani si trova all’estero. 
                  Se fossero ancora in Italia, sommandoli alla popolazione già 
                  residente nel paese, avrebbero reso l’Italia il paese 
                  numero uno in Europa, escludendo qualsiasi crisi economica. 
                  Tutte le mattine – si fa per dire – sarebbe stato 
                  necessario preparare circa 55 milioni di caffè in più 
                  e incassare il relativo fatturato, IVA e tasse. Tant’è 
                  vero che, passata la “bufera”, il governo romeno 
                  rivuole indietro i suoi 3-4 milioni di emigrati. E questo creerà 
                  svariati problemi anche in Italia, provocando una carenza di 
                  mano d’opera nei settori della bassa manovalanza, nella 
                  tecnologia e nei servizi.
                «Gli zingari 
                  italiani?» «Nema problema»
                Gli zingari di vario ceppo – Rom, 
                  Sinti, Kali – di nuova e vecchia emigrazione in Italia 
                  si calcola siano circa 150.000. È una minoranza diffusa 
                  a macchia di pelle di leopardo sul territorio. Ma allora rappresenta 
                  un problema marginale. Si è voluto che ci fosse il problema, 
                  da gestire in modo opportuno e forse funzionale a certa politica 
                  di bassa lega, ammassando e facendo vivere questa povera gente 
                  in campi che sono un’imitazione degli stalag di sinistra 
                  memoria, lasciando da parte l’esperienza eccelsa in questo 
                  campo accumulata ad esempio da Don Virginio Colmegna e dall’Opera 
                  Nomadi – a Milano la sede di questi ultimi fu oggetto 
                  di vandalismo nell’ormai lontano dicembre del 2003. Per 
                  sedentarizzarli basterebbe restituire loro le case, i terreni 
                  e i permessi di accampamento, che ammontano alla cifra quasi 
                  incredibile di 10.000 unità, insieme con il tesoro degli 
                  zingari italiani, estorti e confiscati nel periodo fascista 
                  e avvolti nel più completo silenzio dopo la Seconda guerra 
                  mondiale.
                  Per tornare all’Iran – a causa delle persecuzioni 
                  bolsceviche e staliniane, dalla Russia prima e dall’URSS 
                  poi – a un certo punto laggiù sono arrivati migliaia 
                  e migliaia di europei e asiatici d’ogni etnia, che nella 
                  quasi totalità erano privi di documenti, perché 
                  sequestrati a suo tempo dalla GPU prima e dalla CEKA poi (quello 
                  che più avanti nella storia sarà il KGB). Fu un 
                  esodo di massa, una massa candidata ad essere annientata definitivamente. 
                  Ma il governo persiano rilasciò immediatamente permessi 
                  di soggiorno e carte d’identità sulla sola parola 
                  dell’emigrante. Fu il primo atto d’accoglienza, 
                  funzionale all’inserimento di quel “soggetto estraneo” 
                  nel seno della società. E più avanti vennero messi 
                  in piedi asili nido e scuole elementari e medie per ciascuna 
                  etnia: russa, ucraina, bielorussa, georgiana, armena, ebraica 
                  orientale e tatara (turchi dell’Azerbaigian).
                HERMAN VAHRAMIAN
                  
                Uno zingaro rubò due chiodi 
                  dalle mani insanguinate di Gesù. Gli uomini lo condannarono 
                  a un eterno vagabondaggio. Gesù sospirò di sollievo: 
                  aveva due chiodi in meno a tormentarlo.
                  Aforisma risalente al 18 gennaio 1996, dopo che fui insolentito 
                  da un milanese poiché avevo donato qualche soldo a una 
                  zingara con in braccio un figlio piccolo.
                Herman Vahramian (dottore, architetto, 
                  giornalista)
                  Viale Umbria, 35
                  20135 Milano