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06 02 13 - NELLA CASA-LABORATORIO DEI DUE FILMAKER D'AVANGUARDIA, FAMOSI NEL MONDO MA DIMENTICATI IN ITALIA
LA STAMPA del 13-2-06
Così filmiamo la Storia cancellata
di Marco Belpoliti

MILANO. Tra pochi giorni Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi partiranno per New York. Al Moma si proietta il loro ultimo film, Oh, uomo! Presentato due
anni fa a Cannes, e ritenuto dai critici, insieme con Notre musique di Godard, l'unico film-mondo della rassegna, è rimasto impresso in modo indelebile nella
memoria di chi l'ha visto. Mentre le immagini scorrevano sullo schermo, in sala si udivano solo i respiri, a tratti affannosi, degli spettatori, interrotti, di tanto in tanto, dalla musica di Giovanna Marini, una sorta di grido sommesso
che commentava la visione accrescendo la tensione.

Oh, uomo! è un film sulla guerra, descrive gli effetti della prima guerra mondiale sui corpi umani: esamina in modo anatomico, partendo dalla testa fino
ai piedi, mutilazioni, ferite, tagli, ulcerazioni, squarci. La particolarità dei film di Gianikian e Ricci-Lucchi è quella di essere realizzati utilizzando
altri film, materiali d'epoca che i due registi rifilmano mediante una tecnica particolare da loro chiamata «camera analitica», che comporta l'esame di ogni singolo fotogramma. Nella versione finale la pellicola viene colorata, a volte a mano, a volte usando filtri speciali. Il risultato è un film che scorre lentamente e a tratti accelera di colpo, così da provocare nello spettatore una doppia sensazione: concentrazione e spaesamento. Questo è il loro terzo film dedicato alla Grande guerra, ritenuta da loro la Madre di tutte le guerre. Il primo è stato Su tutte le vette è pace (1998), seguito da Prigionieri della
guerra (1995), entrambi proiettati nei festival di tutto il mondo, così da assicurare ai due filmaker una solida fama internazionale, direttamente
proporzionale alla dimenticanza con cui sono trattati in Italia.

Torno a visitare la loro casa-laboratorio, nei pressi della Stazione Centrale, dopo oltre dieci anni, e la ritrovo uguale a se stessa: sobria, essenziale,
quasi spoglia, eppure calda, forse per via dei tappeti armeni, vecchi e consunti, stesi quasi ovunque, per le librerie, lo studiolo fitto di
raccoglitori gialli con la loro etichetta bianca. La cucina è il luogo più affabile della casa, mentre sul lato opposto, in fondo al corridoio, c'è il
laboratorio, antro magico, dove troneggia, coperta da un grande telo, una vecchia macchina per il montaggio degli anni 70 e un tavolo passafilm degli anni 20, appartenuto al pioniere del cinema italiano, il milanese Luca Comerio.
Qui, in questo spazio rettangolare ingombro di cose e strumenti Gianikian e Ricci-Lucchi, amanuensi dell'immagine, monaci laici, timidi, pieni di ritrosie, miti ma severissimi, hanno lavorato in silenzio per quasi trent'anni. Il risultato sono dei film unici al mondo che di sicuro sarebbero piaciuti a
Walter Benjamin, archeologo della modernità.

Yervant è armeno, nato in Italia, a Merano, nel 1942, dove il padre,
farmacista, aveva trovato rifugio dopo la fuga dalla Turchia all'epoca dello
sterminio del suo popolo, all'inizio del XX secolo. Alto, porta un paio di
baffi bianchi, possiede uno sguardo luminoso; ha studiato architettura a
Milano; artista visivo, ha esposto negli anni Settanta alla Galleria il
Cavallino di Venezia. Poco dopo ha conosciuto Angela Ricci-Lucchi, allieva di
Kokoschka a Vienna. Lei è più piccola, il viso ovale, quasi cinese, sorridente
ti osserva con calma ed enigmatica curiosità orientale. «Veramente - dice
Angela - non ho neppure frequentato l'Accademia; non ho terminato nessun tipo
di studio. All'inizio degli anni Settanta seguivo le lezioni di Francesco
Arcangeli a Bologna, da uditrice. Kokoschka, poi, mi ha rilasciato un diploma
in cui si diceva: questa artista deve essere mantenuta dallo Stato. Ovviamente
non è stato così».

All'inizio degli anni Ottanta, quando li ho conosciuti, stavano lavorando a Dal Polo all'Equatore, il loro primo lungometraggio, realizzato con le pellicole di Comerio, ritrovate fortunosamente in un magazzino di Milano e ottenute, poco a poco, usando tutti i soldi di cui disponevano. Comerio è stato il fondatore della cinematografia italiana negli anni Dieci, operatore di guerra,
dannunziano, fascista. Per realizzare quel film i due registi avevano rifilmato i 347.600 fotogrammi dell'archivio. Allora erano già noti all'estero per i loro film profumati, cortometraggi di pochi minuti, dedicati a collezioni di oggetti o a cataloghi, come quello del museo Lombroso.

Angela, che è nata a Lugo in Romagna, mi racconta che si sono conosciuti tramite Corrado Costa, il geniale poeta della neoavanguardia, nel 1974. Aveva
appena tenuto una mostra al Palazzo dei Diamanti a Ferrara, ma già cercava di realizzare immagini in movimento: «Avevo fatto un film in campagna, dai miei,
poi rielaborato con Yervant nel 1974». Perché siete passati al cinema? «Era una cosa nell'aria allora, nelle avanguardie del periodo. C'era già stato Duchamp, con i suoi brevi film, un maestro per tutti. Nel 1979 abbiamo iniziato un film Karagoez, una sorta di teatro d'ombre, usando film amatoriali prodotti in
formato 9,5 mm, quello di Pathé Baby del 1922. Stavamo mettendo a punto il nostro metodo e abbiamo incontrato l'archivio di Comerio. Ce l'aveva uno strano personaggio che trafficava in fiori finti a Milano».

In un libro dedicato a Gianikian e Ricci-Lucchi (ed. il Castoro) Paolo Mereghetti e Enrico Nosei spiegano come la loro cinepresa abbia le caratteristiche del microscopio; più vicina alla fotografia che al cinema:
ricorda Muybridge e Marey più che i fratelli Lumière. Lo scopo di questa tecnica è quello di riprendere i dettagli secondari del film, scrutandolo fotogramma per fotogramma, per realizzare un film che restituisce sullo schermo il processo stesso della memoria. I loro film sono infatti composti di tracce
mnestiche, ricordi che paiono illuminare con il loro ritmo di scorrimento quasi ipnotico la realtà più di un film realistico. Seduto nella loro sala spoglia,
davanti al televisore che trasmette Oh, uomo!, ho avuto ancora una volta l'impressione che il loro cinema usi il «rimosso» come materia prima, ovvero
tutto ciò che è stato allontanato, obliato, spostato, eliminato dal campo del reale.

Yervant Gianikian e Angela Ricci-Lucchi sono come due sciamani, due maghi, scesi all'Inferno, nelle profondità smarrite della Storia, per riportarne alla
luce la vera immagine. Novelli Orfeo del cinema, trafficano con la morte e rendono luminoso ciò che è oscuro, esercitando un controllo sulle nostre
angosce; tuttavia, come nel mito, non possono girarsi per guardare in faccia Euridice, così ci restituiscono la sua immagine in maniera elaborata, sotto forma poetica, utilizzando la «camera analitica».

I critici parlano di cinema d'avanguardia, ma anche di cinema politico.
Mereghetti ha scritto che il loro archivio non è rivolto all'archeologia, non contiene nessuna nostalgia: diventa efficace proprio nel confronto con l'oggi.
«Nel 2000 abbiamo portato Inventario balcanico, un film realizzato usando materiale amatoriale, vecchi filmini casalinghi, un cortometraggio di un
soldato tedesco, attraverso le capitali dell'ex Jugoslavia. Volevamo mostrare come le diverse comunità avessero convissuto insieme. In Serbia siamo stati fermati dopo la proiezione. Dimostravamo che con quella guerra fratricida l'Europa si stava suicidando per la terza volta».

Perché lavorate in questo modo affidandovi solo al dettaglio e al colore?
«Vogliamo che siano le immagini a parlare da sole. In fondo noi riscriviamo la storia; a volte la ribaltiamo persino. Quando i conservatori degli archivi vengono a vedere i film realizzati con i loro materiali, non li riconoscono. È come se ogni volta noi entrassimo nel film, lo rifacessimo; ma al tempo stesso troviamo quello che c'è dentro, nascosto: lo mostriamo per la prima volta».

Angela tiene da molti anni il diario del loro lavoro. Dipinge acquerelli su taccuini; sono appunti visivi, ma anche racconti di viaggio, resoconti della
lavorazione dei film, promemoria, persino note di lettura e recensioni di libri letti. Si tratta di disegni piccoli, minuziosi, ricchi di dettagli, tracciati con mano leggera, infantile, colorati con garbo, che assumono, tutti insieme, la forma di un lungo racconto per frammenti. «Ho cominciato parecchi anni fa, durante un viaggio in Turchia, su un cargo, per riempire il tempo». Ora siete ritornati all'arte, avete esposto alla Biennale di Venezia. «È stato Harald Szeemann a invitarci», risponde Yervant. «Abbiamo realizzato un'installazione
con tre proiezioni sul tema del colonialismo. Poi ci sono state anche altre mostre, ad esempio “Le désert” alla Fondation Cartier nel 2000».

La loro casa-laboratorio assomiglia ad alcune delle loro opere. In cucina, su una vecchia madia dipinta di bianco, accostata alla finestra, ci sono dei
portacenere, quasi una collezione, oggetti scelti con cura e appoggiati con nonchalance, simili a quelli che Angela dipinge sui suoi quaderni. Anni fa, nel
1987, hanno fatto un viaggio nell'Armenia sovietica con Walter Chiari, loro amico, durante una tournée. Hanno girato nove ore di pellicola, un altro film
dedicato a quel paese che non hanno ancora montato. «Faceva degli spettacoli in giro. Tempo dopo accadde il terribile terremoto, e Walter mi telefona. Era in ospedale, stava già male. Mi dice: "Ma sono tutti scomparsi? Allora ho ballato coi morti!"».
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