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050927 -Mentre gli storici europei restano legati alle accuse alla Chiesa, i colleghi israeliani studiano l'Olocausto insieme agli altri genocidi
SHOAH- Da Avvenire 27/9/05
Dove sono finiti i Giusti?
Altro caso: in Italia, con 27.000 ebrei sfuggiti ai lager, sono noti solo 300 «salvatori» Perché da noi la ricerca è legata ai soliti luoghi comuni
Di Antonia Grasselli

Yad Vashem, l'istituto costituito nel 1953 dal governo israeliano per ricordare le vittime della Shoah, si trova su una collina orientata verso Gerusalemme. È in questo luogo, concepito come un grande memoriale, che si è svolto di recente un seminario per educatori italiani in cui la serietà della ricerca effettuata sulla Shoah dagli studiosi israeliani ha consentito la maturazione di nuove
prospettive di studio. La lezione di Dan Michman, storico principale dello Yad Vashem, ha sottolineato per esempio l'assoluta modernità dell'antisemitismo, tanto che lo stesso termine è «nuovo»: fu coniato nel 1870 per esprimere un concetto che ha le sue radici non nel cristianesimo medievale, bensì nella corrente non religiosa dell'illuminismo, nel socialismo e nel mito della scienza proprio del positivismo. Dall'odio antisemita si è passati all'antisemitismo: un'ideologia, non più un fatto psicologico; una posizione che pretende di essere scientifica e si propone come visione del mondo.
E un'ideologia con caratteristiche diverse rispetto all'atteggiamento medievale:
non si deve cioè cercare di convertire gli ebrei per portarli nella società cristiana, ma neanche emanciparli. Gli ebrei convertiti ed assimilati sono anzi i più pericolosi, perché nascosti. La biologia, l'antropologia, la linguistica stanno alla base di questa ideologia antisemita che, a partire dalla fine dell'800, è diventata uno strumento politico per attrarre le masse. In che senso invece si può parlare dell'unicità della Shoah? Yehuda Bauer, direttore del Centro internazionale per gli studi dell'Olocausto di Yad Vashem, ha rilevato una serie di elementi che hanno caratterizzato lo sterminio degli ebrei e che fanno della Shoah un «paradigma», un fatto senza precedenti ma non
l'unico, perché può essere ripetuto. Dunque la Shoah serve per studiare altri genocidi. Nella specificità dell'Olocausto si possono cogliere infatti implicazioni universali, che aiutano a comprendere, instaurando confronti.
Anche gli ebrei rinchiusi nel ghetto di Lods tentarono del resto una comparazione; leggevano il racconto di Wegner sullo sterminio degli armeni e si chiedevano: accadrà così anche a noi? Ora, ha detto Bauer, siamo solo agli inizi di una ricerca comparata. È auspicabile per il futuro la costituzione di un centro studi sul genocidio, separato da Yad Vashem, ma che collabori con esso. In questo contesto, così ricco e aperto a nuove prospettive, le relazioni di Sergio Minerbi, dedicate alla posizione di Pio XII e della Chiesa cattolica sulla Shoah, sono apparse una stonatura, ossia la riproposizione di un'interpretazione che non vuol confrontarsi con i risultati degli studi più recenti. Dal titolo Una discussione su Pio XII e la Shoah ci si sarebbe aspettati per lo meno la presentazione del dibattito storiografico in corso; invece il solito monologo, tristemente inconcludente, ripiegato su se stesso, infarcito di luoghi comuni e di accuse contro la Chiesa. In questo la pedagogia di Yad Vashem potrebbe forse aiutare gli studiosi italiani, in quanto pone come scopo dell'educazione la comprensione del senso dell'evento e l'apertura di una prospettiva di speranza. Le implicazioni metodologiche sono estendibili sicuramente allo studio della storia nel suo complesso. Abbandonati i concetti astratti e le generalizzazioni - ha detto Shulamit Imber, direttrice pedagogica della scuola internazionale dell'Olocausto di Yad Vashem - la storia va insegnata come storia umana, storia di individui, perché vittime, spettatori e carnefici erano esseri umani. Agli ebrei, vittime del nazismo, va ridata un'identità (un volto, un nome, una storia); ne va conosciuta la vita quotidiana, la vita nei ghetti prima della deportazione, le scelte. Anche molti spettatori a un certo punto sono diventati salvatori, hanno fatto una scelta.
È l'esempio dei «Giusti tra le Nazioni». In questo modo, ha precisato Irena Steinfeld (autrice dell'unità educativa «Come è stato umanamente possibile»), ci si avvicina al passato come a qualcosa di vivo, si riesce ad entrare dentro le situazioni pur mantenendo una certa distanza. Il «Giardino dei Giusti tra le Nazioni» - «giardino degli uomini normali» come lo descriveva Moshe Bejski - con i suoi 2000 alberi (ed ogni albero un suo nome) è una piccola foresta che circonda, sembra quasi che abbracci i monumenti eretti alla memoria dell'Olocausto. Duro è l'impatto e difficile far spazio dentro di sé alla morte e alla distruzione. Ma poi si cammina nei viali tra questi alberi, a volte lo sguardo non coglie la fine delle radure in cui sono stati piantati, ognuno con un proprio nome. La consolazione dei Giusti ci raggiunge nella dolcezza di questo paesaggio, perché il Bene (e non il Male) è l'ultima parola sulla storia. Anche se la memoria del Bene è difficile da conservare, in quanto si basa unicamente sulle testimonianze. Il caso italiano deve far riflettere:
27.000 sono stati gli ebrei salvati (su 35.000 che vivevano in Italia) e solo 300 sono i «Giusti» italiani riconosciuti. Come mai? La spiegazione è molto semplice: una seria ricerca in Italia non è mai stata fatta. Tanti studi sulle vittime, il fascismo, la Repubblica sociale, i collaborazionisti... Ma i
salvatori e i luoghi di rifugio? Disattenzione? Ingratitudine? Scelta di campo? La ricerca dei «Giusti» italiani è una sfida contro il tempo. Chi la raccoglierà? Dare un volto e un nome ai salvatori, scrivere piccole storie che colgano il significato del loro agire. È possibile sperarlo?

V.V

 
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