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050915 - La masseria delle allodole” di Antonia Arslan č ormai, fenomeno raro per un autore italiano
di ANDREA GRILLINI “La masseria delle allodole” di Antonia Arslan è ormai, fenomeno raro per un autore italiano, un long-seller: sin da quando, nel 2004,
è stato pubblicato dalla Rizzoli, questo romanzo è in classifica, va a ruba nelle librerie e accumula un premio dopo l'altro. Già l'anno scorso ne vinse
otto in pochi mesi : Premio Berto, Casanova, Fregene, Città di Bari, Selezione Campiello, Campiello Secondo Noi, Fenice-Europa, Stresa.
Quest'anno ha ottenuto il Premio Lettori di Lucca, quello dei Lettori di Cuneo,
quello Internazionale di Letteratura religiosa di Pagani (Salerno) e, una
decina di giorni fa, Il Pen Club a Compiano, in provincia di Parma. Signora
Arslan, il segreto del successo del suo libro? «Credo sia per il fatto storico
che racconto, che tutti sanno essere stato “cancellato” dalla storia del secolo
scorso e che invece è alla base di ogni successiva idea di genocidio. Penso che
tutti rivivano con intensa empatia quei tragici eventi accaduti 90 anni fa, ma
sempre attuali nella memoria dei superstiti e dei loro discendenti». La strage
del popolo armeno rimane una delle pagine più oscure della storia. Perché
quella gente inerme si meritò tanto odio da parte dei turchi? «Bisogna
ricordare che non fu il popolo turco a perpetrare quella mattanza, ma fu il
governo laico del Partito “Unione e Progresso”, i cosiddetti Giovani Turchi che
avevano preso il potere in seguito alla rivoluzione del 1908, esautorando il
Sultano. Furono loro a decidere di eliminare o assimilare le antichissime
minoranze etniche di stirpe indoeuropea e semitica presenti nell'Impero
Ottomano, secondo lo slogan di purezza razziale “La Turchia ai turchi”. Tra
queste minoranze c'erano gli Armeni, i Greci e gli Assiri, tutti cristiani, e i Curdi, musulmani. Il momento di mettere in atto quel progetto di pulizia etnica arrivò quando i tre uomini che dominavano il Partito e il governo, Talaat pascià, ministro degli interni, Enver pascià, ministro della guerra, e Djemal pascià, ministro della marina e capo dell'armata di Siria, fecero entrare la Turchia in guerra, nel novembre 1914, come alleata degli Imperi Centrali. Gli Armeni furono le prime vittime, perché i più inermi e perché stanziati da secoli all'interno dell'Anatolia, sulla frontiera orientale dell'Impero. Alcuni di loro, certo, simpatizzavano per la Russia, ma la grande maggioranza era fedele al governo turco. E nulla comunque giustifica lo sterminio di una popolazione». Secondo lei come può un essere umano macchiarsi di tanta crudeltà? «Spesso la cattiveria umana appare senza limiti, così come la varietà delle forme di morte che l'uomo può infliggere ai suoi simili. Ma infinita è anche la misericordia dei giusti, che riesce ad emergere anche nelle situazioni più terribili. Il problema è che quando un governo totalitario decide di sterminare una parte della propria popolazione additandola come capro espiatorio, spesso, purtroppo, la gente comune lo segue. Attizzare l'odio è facile, disintossicarsene è difficile». Qual è la sua parentela con i personaggi della storia da lei raccontata? «I due protagonisti maschili sonomio nonno Yerwant, che viveva in Italia, e suo fratello Sempad, che era rimasto in Anatolia. Nella prima parte del libro racconto la storia del loro desiderio di ritrovarsi, dei loro sogni e progetti e del loro fallimento». Come convive con la parte armena della sua anima? «Qualche anno fa, mentre traducevo le poesie di Daniel Varujan, una delle prime vittime del genocidio, capii che dovevo scrivere la storia di questa parte profonda di me che fino allora era rimasta nell'oscurità. Oggi mi sento più italiana perché non ho più dentro di me quella zona d'ombra irrisolta». I personaggi del suo libro sono tutti reali? «Quasi tutti, almeno di nome, perché di alcuni sapevo pochissimo e allora ho dovuto costruire intorno al nome tutto un carattere. Qualcuno ha pensato che certi episodi particolarmente avventurosi, come la fuga dal campo di prigionia nel doppio fondo di una carrozza, li avessi presi da qualche romanzone d'appendice, ma sono tutti fatti veri, tramandati dalla tradizione familiare».
Nel suo racconto le donne appaiono le grandi protagoniste della tragedia e della resistenza armene e di tanti episodi strazianti. «Sì, come quello in cui
le madri devono scegliere, tra i loro figli, quale portare con sé e quali
lasciare indietro, ossia decidere di abbandonare il più debole o di vendere una ragazza per far sopravvivere gli altri. Nel bellissimo libro del 1993 Survivors, dei coniugi Donald Miller e Lorna Touryan Miller, che rielabora le testimonianze di cento sopravvissuti approdati in California e che sto traducendo con Sandra Fabbro Canzian, si leggono molte di queste storie di donne, raccontate da armeni che a quell'epoca erano bambini di pochi anni e che
tuttavia non hanno mai dimenticato il pianto delle loro mamme». Lei definisce il popolo armeno “mite e fantasticante”. Cosa intende con questi due aggettivi?
«Gli Armeni, che nel Medio Evo erano guerrieri e arcieri valorosi, nei secoli della dominazione ottomana, quando alle minoranze cristiane fu proibito di portare armi, si rifugiarono nel sogno e nella fantasticheria per non perdere
la loro dignità. Si adattarono per la maggior parte a “scomparire nei muri” come topolini astuti e paurosi, convinti di poter sopravvivere solo non dando occasione o pretesto a litigi con i loro padroni». Sono molte le persone che sentono il bisogno di portarle le loro tesonianze? «Sì, ed è bellissimo:
quasi a ogni presentazione del libro, mi si accosta qualcuno che mi racconta che la sua nonna o un prozio o un antenato erano armeni, e spesso mi consegnano
una testimonianza scritta da loro o da questi vecchi, un albero genealogico, una storia di famiglia».

V.V

 
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