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7 mag. 2021: Ministro Giuliano Vassalli e il Genocidio degli armeni - nel 2000 al Palazzo Valentini
Ministro Giuliano Vassalli e il Genocidio degli armeni - nel 2000 al Palazzo Valentini.
Ministro Giuliano Vassalli e il Genocidio degli armeni - nel 2000 al Palazzo Valentini . XX SECOLO: Genocidio - Genocidi Discorso del Prof. Giuliano Vassalli in occasione dell'iniziativa "XX Secolo: Genocidio - Genocidi" http://www.zatik.com/genocidio-intervistavassalli.asp?fbclid=IwAR2n_wJTUKrSgvSgbHv0pEQ80afTRODYc009VAzjyOXFkgKg_3HZxKAhF6c Sono nato il 25 aprile del 1915. E' una premessa dovuta, innanzi tutto per scusare la pochezza del mio dire, che - a parte le fragili basi - è resa vieppiù grave dalle condizioni d'età o di notevole stanchezza nelle quali mi trovo. Ma è anche uno speciale legame al tema di oggi, o al principale dei temi di oggi, il genocidio degli Armeni dell'Impero ottomano. Esso si suol datare proprio da quel giorno (per l'esattezza dal sabato 34 aprile) quando nella stessa Istanbul fu fatta una retata di settecento e più intellettuali armeni che risiedevano in quella città e che poi, deportati in Anatolia, vennero barbaramente trucidati a colpi di scure. Una data importante e sempre indicata come la fondamentale, anche se il genocidio si protrasse per anni ed anni, durante tutto il restante corso della prima guerra mondiale (ricordo il terribile ordine emanato dal ministro della guerra Enver Pascià nel febbraio 1918), e poi sin nel 1919 ed oltre, sino al 1922, ed anche se esso era stato preannunciato ufficialmente, proprio come sterminio di una "razza maledetta", dal Ministro dell'Interno Talaat Pascià un mese e mezzo prima del 24 aprile, il 9 marzo 1915, come risulta da un celebre passo, riportato anche nel cartoncino che presenta questa nostra tavola rotonda. Accade che, nel corso della propria vita, qualcuno si domandi quali erano i fatti salienti nel mondo nel momento in cui ebbe a nascere. E cosi mi è capitato, nell'adolescenza e nella gioventù, di scoprire che il 25 aprile 1915, nel nostro più limitato orizzonte, era il giorno in cui 1'Italia aveva comunicato a Francia ed Inghilterra che avrebbe intrapreso le ostilità contro gli Imperi centrali di lì a un mese, come poi avvenne, e che, in un orizzonte più lontano, aveva avuto inizio il tentativo di annientamento del popolo armeno. La parola genocidio non era stata ancora coniata, ma sterminio ed annientamento sono vocaboli che figurano più volte in quei testi impressionanti che gli organizzatori di questo incontro ci hanno preliminarmente offerto nel quadro di una vasta documentazione, tratta da fonti originali (anche se qualcuno - i negazionisti sono sempre esistiti - si è affannato per decenni a contestarle o a ridurne significato e portata). Del resto, le persecuzioni degli Armeni nell'Impero ottomano, a tacer d'altri precedenti, erano cominciate, anche in occasione di sollevazioni dovute a tante promesse non mantenute, sotto il pretesto della preparazione d'una sedizione e affidando in quell'occasione la bisogna a battaglioni di curdi, sotto il regno di Abdul Hamid II, e fu una carneficina di due o trecentomila vittime che durò almeno tre anni, dal 1894 al 1897, nella piena consapevolezza sia pure sdegnata delle altre potenze. Poi, come è noto, venne il dominio dei cosiddetti "giovani turchi"; e fu nel 1912 che il cosiddetto "Congresso del comitato per l'unione e il progresso" (Ittihad-ve-Terraki) adottò una risoluzione per la turchificazione di tutti i residenti nell'Impero e segnatamente delle popolazioni cristiane ivi residenti. Turchificazione o ottomanizzazione - si aggiungeva, "che non potrà mai essere realizzata con mezzi persuasivi, ma solo con la forza delle armi". Così fui anch'io attratto da questa storia singolare, di un popolo di antica e tormentata storia e di grandi tradizioni culturali, molto più numeroso credo di quello degli Armeni che si trovano oggi nel mondo, divisi ormai da gran tempo in tanti filoni, di cui i tre fondamentali: quello della diaspora in tante regioni vicine o lontane, quello delle vittime dell'immane eccidio ottomano, e quello di quei sopravvissuti fortunati (così dobbiamo chiamarli in forza dei misteri della storia) dell'Armenia orientale che, essendosi trovati ad appartenere alla Persia in regioni da questa poi cedute alla Russia con trattati del 1813 e del 1838, seguirono le sorti dell'Impero zarista e della rivoluzione sovietica e dopo aver fatto per breve tempo parte di un piccolo Stato autonomo che seppe validamente organizzarsi a difesa della propria indipendenza e poi della repubblica federativa socialista sovietica della Transcaucasia insieme ad Azerbagian e a Georgia, conseguirono, come le altre due repubbliche finitime, la loro autonomia nell'ambito dell'Unione sovietica, nel 1936. Fu così che sopravvisse o rivisse il nome di Armenia come comunità nazionale territorialmente e istituzionalmente identificabile, sia pure tanto più piccola dell'Armenia reale, fino ad essere oggi, dal 1991, una repubblica del tutto indipendente, facente parte della Comunità degli Stati indipendenti, ma purtroppo in sotterraneo (e non sempre sotterraneo) contrasto con altra repubblica confinante e appartenente a quella medesima Comunità. E' a questa Repubblica indipendente ed autonoma di Armenia che, nella persona del Signor Ambasciatore dr. Gaghik Baghdassarian, rivolgiamo qui tutti il nostro saluto, ringraziandolo, unitamente alla Provincia di Roma, per l'iniziativa odierna. Questo premesso, non parlerò più dell'Armenia se non in modo incidentale, essendo mio compito di relatore almeno cosi penso in relazione ai miei interessi di studio - di parlare del genocidio in generale, mentre L'onorevole Giancarlo Pagliarini, autore e primo presentatore di una mozione illustrata esattamente un mese addietro (il 3 aprile) alla Camera dei Deputati e che tutti abbiamo avuto la fortuna di leggere e l'occasione di ammirare, si occuperà - penso - specificamente del genocidio del 1915 e degli anni seguenti e delle iniziative che sono in corso per farne rivivere ovunque il riconoscimento e la memoria, così come è stato fatto per l'0locausto ebraico della Seconda guerra mondiale e per le altre vittime della barbarie nazista: russi, polacchi, baltici, uomini e donne dell'Europa occidentale e settentrionale. I temi terribili che l'odierna tavola rotonda ripropone hanno sempre formato oggetto, per me come per altri penalisti, di un forte interesse non solo storico ed umano, ma anche giuridico. La mia prolusione alla cattedra di diritto penale nell'Università di Genova, sulla quale ebbi l'onore di ascendere nel 1945 (era appena iniziato il processo di Norimberga) aveva per titolo "I delitti contro l'umanità e il problema giuridico della loro punizione". Fu ripubblicata nel 1995, dunque quarant'anni dopo, insieme ad altri miei scritti successivi che denotavano un costante interesse per la materia, in un volumetto intitolato "La giustizia internazionale penale" e quando da poco si erano insediati, sulla base di Risoluzioni dell'ONU, i tribunali dell'Aja e di Arusha, rispettivamente per i crimini commessi nei territori della ex - Jugos1avia e del Ruanda: tribunali ad hoc, come quelli di Norimberga e di Tokyo, in attesa dell'auspicata Corte permanente penale internazionale, ancora ben lontana - purtroppo - dalla sua effettiva realizzazione. La letteratura giuridica su questi temi è stata vastissima, dal 1945 ad oggi (e con interessanti prospettive, ma più rara, anche negli anni che immediatamente precedettero e accompagnarono la seconda guerra mondiale), peraltro più nei paesi anglosassoni e in Germania che nella nostra Italia. Tutto è stato detto e ridetto ed è molto difficile aggiungere qualche cosa di interessante o di utile. Mi limiterò ad una osservazione di fondo e ad alcune notizie - peraltro anche queste già conosciute sul concetto stesso di genocidio e sulla sua storia nell'ultimo cinquantennio. L'osservazione di fondo muove da esperienze e considerazioni fatte dagli uomini di legge della mia generazione, o da una parte di essi. Mi permetto di leggere la pagina iniziale della mia introduzione al citato volume sulla Giustizia internazionale penale. "La generazione - scrivevo - alla quale appartengo, passando attraverso il turbine della seconda guerra mondiale, si è trovata a confrontarsi con una realtà devastante e, almeno sino a quei limiti, inimmaginabile: i crimini contro l'umanità e la loro pianificazione. Conoscevamo, sin dai libri di scuola, l'orrore delle guerre più antiche: l'obbiettivo dello sterminio del nemico o della sua riduzione in schiavitù; e ne potevamo immaginare le modalità atroci. Ma quei ricordi e quelle immaginazioni rimanevano come confinati nelle meditazioni di un passato fosco e barbarico, accettato con tutto il carico di ciò che era il portato di un mondo superato ormai da secoli e sulla via di essere vinto in nome di ideali diversi: prima di tutto il superamento delle guerre e, dove ciò non avvenisse, dalla progressiva creazione di un sistema di regole, universalmente accettate, per ridurre gli effetti più terribili dei conflitti armati e cercare l'affermazione di irrinunciabili esigenze umanitarie anche nel vortice degli orrori che ogni guerra porta con sé. Prima che nascessimo già vi erano state, sin dal secolo precedente, una serie di convenzioni contro la schiavitù, per la protezione, da altri terribili pericoli, dei popoli appartenenti a continenti più indifesi, per la difesa delle popolazioni civili nel tempo di guerra; il nostro secolo si era aperto - può dirsi - con le Convenzioni dell'Aja per il rispetto dei prigionieri di guerra, dei feriti, dei naufraghi e, ancora, dei civili. Sapevamo, certo, del ricorso, durante la prima guerra mondiale, d mezzi di guerra inumani come gli aggressivi chimici o, fino a guerre successive, di pallottole dilaceranti e comunque di mezzi bellici dotati di una carica di aggressività destinata a rendere più terrificante e dunque, presumibilmente, più efficace l'avanzata di uno dei contendenti; ma si continuava a confidare che anche queste materie fossero destinate a cadere sotto le previsioni internazionali e sotto l'auspicabile effetto preventivo delle relative sanzioni. Di genocidio, nell'epoca della nostra gioventù, almeno in questa parte d'Europa, non si parlava, anche perché un inspiegabile silenzio era sceso sull'eccidio dei seicentomila armeni che vivevano in Turchia nel 1915, come se l'amnistia implicita nel Trattato di Losanna del 1923 avesse cancellato, con le conseguenze giuridiche, anche il ricordo di quei terribili eventi" (scrissi "seicentomila", ma molti testi da me visti successivamente parlano di un milione e mezzo di vittime). "La seconda guerra mondiale ci pose, in Europa come in Asia, a contatto diretto o quasi diretto con fatti di proporzioni e di atrocità inaudite. Per quanto si fosse potuto immaginare, supporre o intuire, le scoperte agghiaccianti del 1945 superarono ogni immaginazione e dettero la riprova di quanto fosse stato preveggente l'atteggiamento delle parti che poi uscirono vittoriose dall'immane conflitto quando avevano sancito la necessità di punire gli autori di quei disumani massacri e avevano stipulato i necessari accordi in vista della realizzazione di quel fine. "Per i giuristi in generale, e per i penalisti in particolare, si ponevano inderogabilmente numerosi problemi giuridici legati a quelle minacce e a quegli accordi: da un lato la comune, e quasi universalmente sentita, esigenza della punizione, dall'altro la ricerca di un suo solido fondamento giuridico. Ricordo che questi problemi tormentavano tutti, ma in particolare i penalisti più giovani, quelli della mia generazione: forse l'età portava a riflettere sui problemi più reali e profondi del reato e della pena e rendeva meno scettici circa i destini dell'umanità. "La prima esigenza, cioè la necessità di processare e di punire, nasceva da un interrogativo elementare: è possibile che si puniscano solo i delitti per dir così ordinari, secondo gli schemi ordinari e comunemente accettati e praticati, e restino invece impuniti i delitti più gravi , più massicci, più orribili, solo perché perpetrati per ordine di governanti o di comandanti, usando la guerra come occasione e pretesto e l'occupazione bellica come copertura? Che valore ha più la giustizia ordinaria se si può orribilmente delinquere sperando, a seconda dei casi, nella vittoria o nell'amnistia? I1 penalista sentiva di non potersi chiudere nel recinto della giustizia nazionale, sia pure allargata agli spazi ad essa concessi dai codici penali militari per i delitti contro le leggi e gli usi della guerra o per i delitti di collaborazione col nemico. E cercava un'altra superiore e più generale giustizia. "Ma gravi erano i problemi che il giovane penalista trovava per l'appagamento di quell'esigenza secondo convincenti canoni giuridici. Egli trovava anzitutto un diritto internazionale chiuso - fatte salve, almeno in Italia, rare eccezioni - nella sua indiscutibile struttura e convinzione dogmatica: un diritto del quale sono soggetti soltanto gli Stati (ai quali soltanto si dirigono gli imperativi) e a cui è ontologicamente estraneo ogni coinvolgimento diretto nella punizione degli individui; un diritto disposto, si, a riconoscere la validità di accordi tra gli Stati per la punizione dei crimini di guerra, ma con la conseguenza ineluttabile che tale punizione sarà opera della giustizia militare degli occupanti, sia pure esercitata in comune fra una pluralità di occupanti, e che ai principi di diritto internazionale si potrà fare appello solo in modo vago ed indiretto, come a una somma di principi ispiratori rivolti al rispetto delle leggi dell'umanità, ma non mai come a fonte dei precetti individuali e delle relative sanzioni. Trovava poi, come altrettanti ostacoli nel difficile cammino, i problemi dell'immunità dei governanti, salva sempre la possibilità di leggi retroattive interne aventi per ciò stesso carattere rivoluzionario e dunque giuridicamente dubbio. Trovava il principio, comune di diritti penali nazionali, della insindacabilità dell'ordine del superiore; e altre difficoltà che sarebbe lungo enumerare". E allora molti di noi sentirono che si doveva uscire allo scoperto e trovare un fondamento giuridico a quella esigenza di punizione che era anche una esigenza di prevenzione di mali analoghi per il futuro. Vi fu chi, come il Nuvolone (un grande penalista più giovane di me di due anni, mancato ai vivi purtroppo quindici anni fa) cercò di costruire un diritto positivo umano, diverso da quello sia nazionale che internazionale, che trovava fondamento nel diritto della comunità universale degli uomini; altri, come chi parla, cercarono di trovare la base nel diritto internazionale, sovvertendone alcuni principi tradizionali e richiamando anche i giuristi più tradizionalisti alle esigenze del progresso dell'umanità contro la barbarie. Sta di fatto che oggi quei principi che sembravano irraggiungibili sono ormai un patrimonio comune : la responsabilità penale dei capi di Stato, dei capi di governo, dei comandanti militari e di ogni altra persona rivestita di alti poteri è oramai fuori discussione nel diritto internazionale da quando, l'11 dicembre 1946, l'Assemblea generali delle Nazioni Unite ha adottato, all'unanimità, i principi ai quali si era ispirato pochi mesi prima il Tribunale militare internazionale di Norimberga. E questo principio e stato ribadito poco tempo dopo proprio nella Convenzione di New York del 9 dicembre 1948 sulla prevenzione e punizione del crimine di genocidio, sottoscritta da un altissimo numero di Nazioni del mondo ed entrata in vigore per l'Italia sin dal 2 settembre 1952. Nell'art. IV di tale convenzione è detto testualmente che "le persone che abbiano commesso genocidio in una qualunque delle forme indicate nell'art. III (dunque anche solo accordo per commetterle, istigazione, tentativo, ogni tipo di concorso) vanno egualmente punite sia che si tratti di individui privati, di dirigenti costituzionalmente responsabili o di pubblici ufficiali". Anche nello Statuto di Roma del 1998 - per fare un salto di cinquant'anni al di sopra di altri documenti fondamentali - si ribadisce che "le disposizioni dello Statuto (che - come è noto - riguarda genocidio, altri crimini contro l'umanità e crimini di guerra) si applicano a tutti allo stesso modo, senza alcuna discriminazione fondata su qualifiche ufficiali. In particolare - vi si aggiunge - la qualifica ufficiale di una persona quale Capo di Stato e di Governo, membro del Governo o del Parlamento, rappresentante elettivo o funzionario dello Stato, non esonera in alcun caso dalla responsabilità penale prevista nel presente Statuto, né costituisce, di per sé, circostanza attenuante". E come se non bastasse, si precisa ulteriormente che "immunità o procedure speciali correlate alle qualifiche ufficiali in virtù del diritto interno o del diritto internazionale, non impediscono alla Corte di giudicare la persona". Il successivo art. 28 è dedicato a delineare con minuziosa precisione le responsabilità dei comandanti militari anche per i delitti commessi da persone a loro sottoposte. Ma la Corte ancora non esiste e lo Statuto non è ancora in vigore. Viceversa è in vigore da quasi cinquant'anni la ricordata Convenzione sul genocidio, e così lo è la fondamentale Convenzione internazionale del 26 novembre 1968, che esclude l'applicabilità di ogni Statutory limitation ai delitti di guerra e ai delitti contro l'umanità, sottoscritta anch'essa da un alto numero di Stati (purtroppo - salvo errore - non ancora dall'Italia). Egualmente è caduta la barriera già costituita dall'ordine insindacabile superiore quando questo sia manifestamente illegittimo. Tale principio, che per il diritto interno era già riconosciuto dal codice penale militare italiano del 1941, viene espressamente richiamato in una serie di atti internazionalmente vincolanti con esplicito riferimento al carattere manifestamente illegittimo degli ordini di commettere genocidio o crimini contro l'umanità. Infine, tra i tabù caduti nel campo che ci interessa, non si può dimenticare il principio di non retroattività della legge punitiva. Qui la situazione giuridica si atteggia in modo particolare. Per esempio, nel già citato Statuto di Roma la non retroattività viene mantenuta nel modo più rigoroso: quando un giorno la auspicata Corte permanente dovesse entrare in funzione la Sua giurisdizione si estenderà soltanto su fatti successivi. Ma i delitti di violazione delle Convenzioni di Ginevra del 1949, i crimini di guerra, il genocidio e i crimini contro 1'umanità commessi nei territori della ex-Jugoslavia e punibili dal Tribunale internazionale dell'Aja si estendono sino all'inizio del 1991 ancorché le risoluzioni nn.808 e 827 del Consiglio di Sicurezza dell'ONU siano del 1993. Più interessanti al riguardo sono gli articoli 7 della Convenzione europea di Roma del 1950 e 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici (New York, 1966). Entrambi questi articoli vincolano i paesi firmatari all'osservanza del principio nullum crimen sine lege, nulla poena sine lege, ivi incluso il divieto di retroattività delle leggi punitive. Tuttavia in un capoverso, entrambi gli articoli aggiungono che quanto ivi sancito "non ostacolerà il rinvio a giudizio e la condanna di una persona colpevole di un'azione o di una omissione che, al momento in cui fu commessa, era criminale secondo i principi generali di diritto riconosciuti dalle nazioni civili ". ( Il Patto del 1966 preferisce la formula "dalla comunità delle nazioni"). Fatta questa constatazione di fondo, relativa al mutamento radicale dei canoni di diritto internazionale negli ultimi sessant'anni, passiamo a qualche sintetica considerazione sul delitto di genocidio, anche se si tratta di cose ben note a quest'eletto uditorio. La parola, coniata dal giurista polacco Raphael Lemkin sin dal 1944, quando si ebbero le prime certezze sul carattere immane del massacro e sulle sue chiarissime finalità distruttive, dette luogo a qualche critica per la singolare composizione di un etimo greco con uno latino. Si sarebbe dovuto dire, caso mai, genocidio, ma la parola prescelta era senza dubbio più efficace e fu generalmente accolta. Non figurò con questo nome tra i capi di imputazione di Norimberga e di Tokyo, che furono come è noto fondati sui crimini di guerra, i crimini contro l'umanità (anche fuori di un contesto bellico) e i crimini contro la pace; ma già figurava nella ricordata recezione dei Principi di Norimberga (11 dicembre 1946, Assemblea Nazioni Unite) , dove occupava anzi il primo posto, all'interno degli stessi crimini contro l'umanità (categoria più vasta, anche se la distinzione non è sempre facile e piana). Si tratta indubbiamente del peggiore dei crimini contro l'umanità, e forse proprio a questa sua gravità incontestabile si deve la sorte che ha collocato il genocidio come primo oggetto di una convenzione internazionale in queste materie, sin dal 1948, e che ne ha reso accoglibile l'incriminazione dalle legislazioni di un così grande numero di Stati. Tale Convenzione (che è del 9 dicembre, e cioè del giorno antecedente a quello della Dichiarazione dei Diritti dell'uomo), convenzione preparata dal Consiglio economico e sociale dell'ONU, va al di là del significato lessicale perché include tutta una serie di atti, non importa se commessi in tempo di guerra o in tempo di pace, che siano compiuti con 1'intenzione di distruggere, in tutto o in parte, "un gruppo nazionale, etnico, razziale o religioso", e che vanno al di là della uccisione o dell'annientamento. Con carattere tassativo, infatti, l'art. 2 elenca: a) l'uccisione di membri del gruppo (dunque anche di un solo membro), purché alla base vi sia 1'intenzione distruttiva del gruppo; b) la causazione di gravi lesioni all'integrità fisica o mentale di membri del gruppo; c) l'assoggettamento intenzionale del gruppo a condizioni di vita tali da provocarne la distruzione fisica totale e parziale: ed è qui chiaro il riferimento sia ai campi d'internamento, che facilmente diventano di sterminio o d'annientamento, sia alle deportazioni distruttive come quelle - famose per stare al tempo del genocidio armeno, nel deserto mesopotamico di Deir es Zor, in Siria; d) l'adozione di misure intese a prevenire le nascite all'interno del gruppo (dunque sterilizzazioni forzate e aborti obbligatori); e) il trasferimento forzato di bambini da un gruppo a un altro. L'art. 3 - come ho già ricordato - ha cura di precisare che questi delitti sussistono anche nei casi di semplice accordo per commetterli, di ogni forma di concorso, dell'istigazione o del tentativo; mentre l'art. 4 ribadisce il principio, oramai acquisito sin dall'adozione dei Principi di Norimberga, della punibilità anche dei governanti e dei funzionari. Estremamente precise sono poi, al riguardo dei crimini di genocidio, le varie leggi nazionali successive alla Convenzione, tra cui quella italiana del 9 ottobre 1967, che, pure avendo il torto di essere arrivata in ritardo rispetto a non poche altre, a quasi vent'anni dall'obbligo assunto con la Convenzione (adottata - come già detto - nel 1952), è stata messa a punto con indiscutibile attenzione. Ed infatti, essa prevede, indicando con precisione le relative pene, tra gli "atti diretti a commettere genocidio" (art. 1) sia quelli diretti a cagionare lesioni personali sia gli atti diretti a cagionare la morte o lesioni personali gravissime sia la sottoposizione delle persone a condizioni di vita tali da determinare la distruzione fisica, totale o parziale, del gruppo perseguitato per finalità etniche, nazionali, razziali o religiose; mentre nell'art.2 prevede il delitto di deportazione a fine di genocidio, nell'art. 4 gli atti diretti a commettere genocidio mediante limitazione delle nascite, nell'art. 5 quelli diretti a commetterlo mediante sottrazione di minori e nell'art. 6 il delitto di imposizione di marchi o segni distintivi. Molto opportunamente, oltre che per allinearsi alla concezione inglese e nordamericana della conspiracy, consacrata del resto nella Convenzione, la legge italiana prevede come delitto anche il semplice accordo per commettere genocidio pur non seguito da atti esecutivi, così come prevede la pubblica istigazione ed apologia di genocidio (art. 8). In certe parti - è stato notato - la legge italiana è più ampia e severa della Convenzione del 1948. E così ben può dirsi che il crimine di genocidio è tra quelli che hanno trovato maggiore ricezione tra i crimini internazionali di quel tipo sia per la molteplicità delle leggi nazionali, sia per l'obbligo internazionale di estradizione (per cui in Italia si credette di aver bisogno, nel 1967, di una legge costituzionale che escludeva il delitto di genocidio dai delitti politici), sia perché il genocidio è delitto espressamente previsto al primo posto negli Statuti istitutivi dei tribunali internazionali dell'Aja e di Arusha. In verità - come pure è noto - la Convenzione del 1948 prevedeva l'istituzione di una Corte speciale penale internazionale permanente per tutti i delitti di genocidio, ma la carenza di questa Corte si è determinata per la grave stasi dovuta alla guerra fredda e agli eventi connessi: tutte difficoltà che si spera di superare con lo Statuto di Roma, quando questo arriverà ad esecuzione. Cari amici e ascoltatori, dal punto di vista giuridico vorrei dirvi cose ben più analitiche sul crimine di genocidio, al di là di queste sommarie notazioni, probabilmente inutili; ma non è questa la sede né il luogo né il tempo, che sento di dover concedere ad altri. Vorrei solo ricordare una curiosità, se cosi è lecito chiamarla, che si collega agli Armeni. Riguarda non il genocidio, il cui nome venne usato, prima della Convenzione omonima, a quanto risulterebbe, nei primi processi celebrati nel 1945- 1946 a carico di criminali nazisti (ricordo i processi a Greiser, all'austriaco Goeth, a Rudolf Franz Hoess comandante del campo di Auschwitz) nella Polonia liberata: nelle relative sentenze ci si sofferma proprio sul significato di questo sostantivo, forse a causa del fatto che esso era stato inventato da uno studioso polacco. Mi riferisco invece all'origine della denominazione di una categoria più vasta, quella dei crimini contro l'umanità (fondamento dei processi di Norimberga e di Tokyo e degli Statuti di quelle Corti), che è diventata poi oggetto di tante altre risoluzioni, mozioni, convenzioni, leggi nazionali e volumi su volumi. Ebbene, essa è nata proprio in relazione ai massacri - e alle dimostrazioni equivalenti a condanne a morte - degli Armeni nell'Impero ottomano. Nei Trattati di Versailles, di St.Germain-en-Laye, del Trianon, di Neuilly, rispettivamente di pace con la Germania, con l'Austria, con l'Ungheria, con la Bulgaria, questa denominazione non figura. Nel Trattato di Versailles (art. 227), a proposito del processo progettato contro il Kaiser, si disse che "gli Stati alleati e associati pongono in stato d'accusa pubblica Guglielmo II di Hohenzollern, ex-Imperatore di Germania, per offesa suprema contro la morale internazionale e la sacra autorità dei trattati" (evidentemente ci si riferiva dl crimine di guerra di aggressione, che forse sarebbe stato addebitato anche all'Imperatore Francesco Giuseppe se questi non fosse già de funto). In fondo, in tutti quei trattati di pace, i crimini addebitati ai paesi vinti erano sempre, sostanzialmente, i crimini di guerra e i delitti ad essi connessi. Fu solo in occasione del Trattato di Sèvres con la Turchia che il problema si pose. Gli Alleati si ricordarono soprattutto sotto 1' influsso del presidente Wilson, che aveva sposato la causa armena che con una dichiarazione del 28 maggio 1915 i Governi di Francia, Gran Bretagna e Russia avevano espresso la condanna contro il massacro delle popolazioni armene da parte dei Turchi, costituente queste le parole "crimini contro la civilizzazione e l'umanità", dei quali il Governo ottomano avrebbe dovuto rispondere. E nel Trattato di Sèvres (1920) espressero proprio il proposito di punire quei "crimini contro l'umanità". (Ricordo, per inciso, che davanti a Tribunali turchi specie a Costantinopoli e a Trebisonda, tra il 1919 il 1920, si svolsero tuttavia alcuni processi, prevalentemente in contumacia, contro alcuni responsabili di alcuni massacri). Ma il Trattato di Sèvres - come è noto - diversamente da tutti gli altri, non ebbe mai esecuzione. I problemi del mondo sovietico dopo la Rivoluzione bolscevica si affacciavano ormai prepotentemente all'orizzonte e i Turchi potevano essere contro i relativi pericoli un utile baluardo. Cosi, deposto Maometto VI nel 1922 e cessato l'Impero, Mustapha Kemal si mise alacremente all'opera in nome della nuova Turchia repubblicana e ottenne nel 1923 che il Trattato di Sèvres fosse sostituito con quello di Losanna. In questo non si parlava né di nuovi Stati né di territori autonomi ne, ancor meno, di crimini e di punizioni; e adesso era anzi annessa una Dichiarazione di amnistia per tutti i crimini commessi tra il 1914 e il 1922. Questa dichiarazione fu inclusa nell'Accordo globale di Losanna. Realpolitik e connessi oblii cominciavano a dare i loro frutti di tosco. Forse peccando di ottimismo dirà Armin Wegner, il grande testimone tedesco del genocidio armeno in una conferenza tenuta a Milano nel 1968, che "se i responsabili dei massacri degli Armeni del 1915 fossero stati puniti, non vi sarebbe stato il genocidio degli Ebrei". Nel 1945 il Justice Robert Jackson, ispirato dal Dr. Jacob Robinson (uno degli esperti americani dell'epoca) si ricordò, quanto meno dal punto di vista lessicale, di quel precedente contenuto nel Trattato di Sèvres; e nella qualità che allora rivestiva di Capo del Consiglio dei Pubblici Ministeri degli Stati Uniti al processo di Norimberga, propose, in un rapporto del 6 giugno 1945 al presidente Truman, la formula "crimini contro l'umanità", che, pienamente approvata dallo stesso Truman, fu accolta negli Statuti di Norimberga solo due mesi dopo e poi in quello di Tokyo. Di qui il legame veramente incontestabile tra i delitti contro l'umanità, come oggi sono tuttora intesi, e il genocidio degli Armeni. Ma mi sembra ora di lasciare questa terminologia e lessicologia giuridica, di rilievo molto relativo, e di venire al tema centrale di questo Incontro, su cui sarà relatore l'onorevole Giancarlo Pagliarini e del quale indubbiamente anche altri parleranno; il riconoscimento ufficiale da parte - se possibile - di tutti Governi europei - oltre che di tante e tante comunità minori che già vi hanno encomiabilmente provveduto - del genocidio degli Armeni di Anatolia, avvenuto più di ottant'anni or sono e perpetrato in forme cosi barbare che poco hanno da invidiare ai genocidi successivi: e con il riconoscimento storico una condanna che sani in certa guisa il passato e valga per altri casi in avvenire. Su questo tema farò solo due osservazioni, anche se banali. La prima è che capisco le difficoltà in cui si trovano i Governi e Parlamenti europei, e non solo europei. Sono difficoltà di ordine economico e di ordine politico, di fronte a quello che è tuttavia sempre un grande popolo, in continuo accrescimento demografico, come il popolo turco, a cui tutti sono legati appunto da interessi economici e politici. Si tratta della solita Realpolitik, in permanente o quasi permanente contrasto con i diritti fondamentali dell'uomo. Quella stessa Realpolitik, d'altra parte, che per non essere stata integralmente osservata nella Germania vinta dopo la prima guerra mondiale, fu alla base dell'esito dei processi di Lipsia e del revanscismo tedesco: uno degli elementi. alla radice della seconda guerra mondiale. Quella Realpolitik che nei quaranta e più anni di guerra fredda impedì la creazione di un codice vero e proprio dei delitti contro l'umanità e dei delitti di guerra e l'istituzione di una Corte internazionale permanente chiamata a giudicare i crimini internazionali. Quella Realpolitik che ancor oggi contribuisce in modo pesante a far avanzare a passi di lumaca lo Statuto di Roma, dove invece sono contenuti codice e norme sulla Corte. Tuttavia bisognerà cercare di superarla. In fondo la Repubblica turca, solida e salda da settantasette anni, non è l'Impero ottomano, sotto cui quegli orrori furono progettati e perpetrati; e solo limitatamente ne è la continuatrice. Gli autori di quegli orrori non sono più in vita da tempo, anche se i nomi di alcuni di quei Pascià e di quei Bey vengono ancora iscritti nella storia della Turchia e celebrati con strade e monumenti. Anche la Germania era ed è un grande popolo, eppure ha riconosciuto l'0locausto e ne paga il risarcimento. E un grande capo di governo tedesco si è inginocchiato nel Ghetto di Varsavia. La comunità armena rimasta in Turchia, a parte certe sue condizioni di minorazione, non arriva a 60.000 unità e la sua lingua è parlata da poco più cosi almeno si legge negli atlanti di 30.000 persone. Il valore di quella comunità è forse soprattutto ecclesiastico, almeno in Cilicia e a Istanbul. Non vi dovrebbe essere ombra di timori di rivendicazioni, di sedizioni o di vendette, checché se ne possa pensare. So tuttavia che la situazione è tutt'altro che semplice e penso che altri parlerà di questi profili. Possa la ragione non contrastare ciò che è avvenuto senza grandi dificoltà altrove, per altri genocidi. La seconda osservazione - ed è l'ultima con cui chiudo una relazione forse troppo lunga - riguarda il valore - o il significato - di questi riconoscimenti chiesti ai vari parlamentari europei a distanza di tanto tempo dai fatti. Esso potrebbe sembrare una mera esercitazione teorica. Finora. a proposito di genocidi, non abbiamo parlato che in termini penalistici, mentre oggi per il genocidio armeno non vi erano piu processi da fare nè colpe individuali da espiare. Così pure, non ho sentito portare avanti idee di risarcimento o di riparazione, che mi sembrano molto difficili a tanta distanza di tempo, ben superiore da quella che ci separa dalla seconda guerra mondiale. Comunque, sentiremo, anche su questo punto. Mi interessa invece sottolineare il valore della prevenzione. Si è sempre detto ( basterebbe ricordare famose frasi di Jackson nel corso della sua Requisitoria a Norimberga) che la punizione e forse dunque, anche la semplice solenne condanna dovrebbe servire ad evitare crimini simili per il futuro. Ma se si guarda agli effetti positivi di Norimberga e di tokyo in questi cinquantacinque anni c'è da rimanere sgomenti. Alcune grandi guerre internazionale o parainternazionale ( Corea, Vietnam, Afghanistan con il loro carico di tormenti, di odii e di orrori) e 250, dicesi 250. confliti non internazionale, con decine, centinaia di migliaia o milioni di morti ciascuna, per un complesso di piu di 170 milioni di vittime. Vi sono libri aggiornati che contengono questa contabilità tragica. E un numero elevato di conflitti interni, come quelli dei paesi centro e sudamericani, con il loro carico di torture, di soparizioni e di altre barbarie; e infine le vittimizzazioni di regimi tirannici in molti paesi del mondo durati per decenni. Quale effetto preventivo se non zero? Eppure negli ultimi anni qualche cosa si è mosso. Alcuni dittatori hanno motivo di tramare. Sopratutto si è acquisita la coscienza che l'act of State doctrine nei casi di gravi crimini vale oramai ben poco e che le immunità dei capi di Stato o di gioverno vacillano anche dal punto di vista strettamente giuridico. Dunque bisogna sperare che la memoria e le condanne, anche se senza effetto pratico immmediato, aiutino, e che l'oblio vada combatutto come un male. Al genocidio degli Armeni dell'Impero ottomano queta rivendicazione contro l'obblio si attaglia poi - come è noto - in un modo del tutto particolare. Nel suo nido di Obersalzberg, il 22 Agosto 1939, Hitler, il Fuhrer del popolo tedesco, convocò per l'intera giornata gli ufficiali dello Stato maggiore a gruppi così pare di trenta per volta. Era la vigilia della firma dell'accordo nazista-sovietico contro la Polonia e l'antiviglia dell'attacco a quell'infelice paese. Tra le altre indicazioni e raccomandazioni, il supercriminale del secolo si preoccupò di delineare il carattere terribile e distruttivo che avrebbe avuto l'invasione dei territori occidentali della Polonia e di rassicurare i comandanti circa l'impunità di cui avrebbero fruito nonostante le violazione delle leggi e degli usi della guerra e dei diritti dell'umanità ( lui non li chiamava certo così). Ricordò espressamente il massacro degli Armeni avvenuto meno di vent'anni prima e disse: " Chi ricorda oggi del massacro degli Armeni?" Questa la verità, signori e signore, non i leggenda tramandata di libro in libro, o di articolo in articolo, di discorso in discorso. La ricostruzione dei colloqui del Furer del 22 agosto 1939 e stata ed è oggetto di minuziose ricostruzioni di storici, sopratutto tedeschi, di altro valore. Perciò l'auspicata condanna del genocidio degli Armeni sarebbe anche una rinnovata condanna del mostruoso e folle genio criminale di Hitler e dei massacri da lui provocati, istigati e comandati. Sarebbe la rivincita, senza vendetta, delle memoria sull'oblio: un altro passo verso la faticosa presa di coscienza dei doveri elementari degli essere umani verso gli altri essere umani.

Vartanian

 
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