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La rivoluzione dei Giovani Turchi fu diretta dalla regia dei Dunmeh ebrei?‎
di Francesco Lamendola - 29/04/2010‎
http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=32061‎
È noto che la cosiddetta rivoluzione dei Giovani Turchi partì da Salonicco, nel 1908, e precisamente ‎dall’Ottava Armata ottomana che era lì di stanza; e che tale corpo militare, al grido di “Patria!”, ‎marciò su Istanbul e prese il potere per conto del Comitato Unione e Progresso, esautorando il ‎Sultano.
Tutto era incominciato nel 1906, quando una decina di cospiratori avevano formato l’Associazione ‎ottomana della libertà, nucleo del futuro movimento dei Giovani Turchi, largamente ispirata dalla ‎Massoneria dei paesi dell’Europa occidentale, così come - nella prima metà del XIX secolo - era ‎avvenuto per la Carboneria ed altre società segrete, fra cui la stessa Giovine Italia di Mazzini, miranti ‎a rovesciare l’ordine della Restaurazione.‎

In quel gruppo di cospiratori erano già presenti i tre uomini che, di lì a pochi anni, avrebbero preso le ‎redini del governo turco, avrebbero gettato il loro Paese nel braciere della prima guerra mondiale e ‎avrebbero deciso, pianificato e portato a termine il primo grande genocidio del XX secolo: quello ‎degli Armeni, nel 1915-16, che costerà la vita a qualcosa come due milioni di esseri umani, fatti ‎sparire nel nulla nel giro di pochi mesi. ‎

Si trattava di Mehmet Talaat, Gemal Bey ed Enver Bey, il fatale triumvirato che avrebbe precipitato ‎l’Impero ottomano nella disfatta e avrebbe anticipato i metodi di sterminio hitleriani e staliniani su ‎larga scala. Sarebbero finiti male, tutti e tre: Talaat assassinato a Berlino nel 1921, Gemal assassinato ‎a Tiflis nel 1922 ed Enver ucciso in combattimento dall’Armata Rossa, nel Tagikistan, sempre nel ‎‎1922.‎

Tuttavia, dalla loro disfatta sarebbe nata la Turchia moderna, sotto la guida carismatica di Kemal ‎Atatürk, altro ufficiale largamente acquisto all’ideologia laica e “progressista” del Comitato Unione ‎e Progresso. Nei libri di storia occidentali egli è presentato come un personaggio positivo, perché ‎autore della modernizzazione del suo Paese, trascurando alcuni piccoli dettagli, come il fatto che fu ‎un dittatore dal pugno di ferro e che si rese responsabile del completamento del genocidio degli ‎Armeni, al quale aggiunse un genocidio in scala minore a danno dei Greci di Smirne e di altri luoghi ‎dell’Anatolia occidentale, all’epoca della guerra contro la Grecia, conclusa vittoriosamente nel 1922.‎

L’obiettivo iniziale dei Giovani Turchi sembrava di portata politica limitata: il ripristino della ‎Costituzione del 1876, rimasta inapplicata. Ma, davanti alla repressione del sultano Abdul Hamid, ‎che si accanì contro gli ufficiali simpatizzanti del movimento, nel luglio del 1908 l’Ottava Armata, ‎come si è detto, marciò da Salonicco su Istanbul, obbligando il Sultano a ripristinare la Costituzione, ‎incluse alcune nuove norme, tra cui l’abolizione dei tribunali speciali e la concessione della libertà di ‎stampa.‎

L’anno dopo, nel marzo del 1909, il sultano Abdul Hamid tentò un colpo di mano contro il ‎Comitato Unione e Progresso, ma gli andò male e venne costretto ad abdicare dalla pronta reazione ‎dell’esercito di Salonicco, che non abolì la monarchia, ma pose sul trono un personaggio ‎estremamente malleabile, il sultano Mehmet V

Ora, bisogna sapere che Salonicco, il centro della insurrezione dei Giovani Turchi, che contava, ‎all’epoca, 150.000 abitanti, possedeva una antica colonia ebraica di 75.000 persone, vale a dire il ‎‎50% della popolazione totale. Si trattava di una colonia molto forte economicamente, legata alle ‎altre comunità ebraiche d’Europa e con numerose banche e gruppi finanziari di tutto il continente. ‎Fra gli Ebrei, numerosi erano i Dunmeh, ossia i cripto-giudei seguaci del movimento dei sabbatei, ‎che aveva conosciuto un momento di fervido entusiasmo nel XVII secolo, sotto la guida di Sabbatai ‎Zevi, proclamatosi il tanto atteso Messia liberatore del popolo d’Israele. ‎

Arrestato dalle autorità turche, nel 1666 egli aveva compiuto un gesto clamoroso e che, sul ‎momento, apparve incomprensibile ai suoi seguaci: quello di abiurare la fede dei padri e di ‎convertirsi all’Islam. In realtà, sembra certo che si fosse trattato di un mero espediente per evitare ‎una tragica fine, nonché l’estinzione totale del movimento. Sabbatai Zevi avrebbe, infatti, solamente ‎finto di abbracciare l’Islam; ma, in segreto, sarebbe rimasto un Giudeo, consigliando i suoi seguaci di ‎fare la stessa cosa. Esteriormente, i sabbatei sarebbero stati dei musulmani irreprensibili; ma, in ‎privato, avrebbero conservato l’osservanza alle legge dei padri; e, comunque, si sarebbero sempre ‎astenuti dal matrimonio con donne musulmane, continuando a sposarsi solo ed esclusivamente con ‎donne ebree.‎

Ora, la presenza di una così forte comunità giudaica a Salonicco e, all’interno di essa, di molte ‎migliaia di Dunmeh, ansiosi di veder realizzarsi il loro sogno di riscatto nazionale e religioso, ‎difficilmente può essere considerata una semplice coincidenza, nel momento in cui il Comitato ‎Unione e Progresso si accingeva a fare la sua “rivoluzione” democratica, che, in realtà, fu un puro e ‎semplice colpo di Stato nazionalista. Eppure, sembra che gli storici non si siano accorti di ciò e ben ‎di rado hanno mostrato di prendere in considerazione l’ipotesi che vi sia stata una regia occulta, da ‎parte degli Ebrei di Salonicco, e particolarmente dei Dunmeh, nei confronti del Movimento dei ‎Giovani Turchi.‎

Per uno de maggiori esperti occidentali di storia della Turchia moderna, William Yale, già professore ‎all’Università di Boston, nel movimento dei Giovani Turchi vi erano presenze diverse, musulmane, ‎ebree e cristiane, ma il movimento era essenzialmente turco, per quanto diviso fra nazionalisti turchi ‎e filo-ottomani, favorevoli, questi ultimi, a uno Stato multirazziale e, come oggi si direbbe, ‎multiculturale.‎

Peraltro, lo stesso Autore (in: «Il Vicino Oriente»; titolo originale: «The Near East», University of ‎Michigan Press, 1958; traduzione italiana di Guido Martinotti, Milano, Feltrinelli, 1962, pp. 178-79) ‎ricorda come, nel 1901, vi era stato un incontro fra il pioniere del sionismo, Theodor Herzl, deciso a ‎ricostituire uno Stato ebraico in Palestina, e il sultano Abdul Hamid:‎


‎«Negli incontri e nelle note inviate ad Abdul Hamid, Herzl fece due proposte sbalorditive: la prima, ‎di rifondere, tramite un sindacati di banchieri ebrei, la Turchia dei suoi debiti e liberarla, dalla tutela ‎economica delle grandi potenze; la seconda che il sultano concedesse una patente a una compagnia ‎ebraica per lo sviluppo agricolo e la colonizzazione ebraica. Colto nel pieno svolgimento delle ‎trattative per i prestiti con la Francia, Abdul Hamid impiegò con Herzl i suoi ormai sperimentatissimi ‎metodi di temporeggiare, procrastinare e mettere gli uni contro gli altri al fine di ottenere condizioni ‎più vantaggiose dalla Francia: egli disse che era sempre stato amico degli ebrei e che avrebbe accolto ‎con piacere insediamenti sporadici di ebrei in Anatolia a patto che gli immigrato ebrei prendessero la ‎cittadinanza ottomana, rinunciassero alla precedente cittadinanza e con la condizione aggiunta che i ‎governanti a cui essi erano precedentemente soggetti accettassero di riconoscere ufficialmente la ‎cancellazione della cittadinanza primitiva. Tuttavia Abdul Hamid non aveva alcuna intenzione di ‎permettere una immigrazione e colonizzazione ebrea di massa. Egli pera perfettamente al corrente ‎degli scopi e dei fini del movimento sionista, che aveva recentemente indetto il primo congresso ‎mondiale sionista a Basilea in Svizzera nell’estate del 1897.»

La tattica temporeggiatrice di Abdul Hamid e, poi, il prevalere della fazione ultranazionalista in seno ‎al Comitato Unione e Progresso, quand’esso divenne effettivamente il governo della Turchia, ‎spiegano perché il sionismo si rivolse alla Gran Bretagna e ottenne, con la Dichiarazione Balfour, la ‎promessa di un focolare nazionale ebraico in Palestina, durante la prima guerra mondiale, quando la ‎Turchia era schierata al fianco degli Imperi Centrali e destinata a venir travolta, insieme ad essi, nella ‎sconfitta del 1918.‎
Riassumendo: gli Ebrei erano molte centinaia di migliaia nell’Impero ottomano, ai primi del XX ‎secolo; a Salonicco, culla del movimento dei Giovani Turchi, formavano metà della popolazione; da ‎tempo controllavano le banche, il commercio, la stampa, la cultura; esercitavano un’influenza ‎decisiva sulle forze armate e sul governo: e tutto questo sarebbe rimasto privo di influenza sugli ‎stessi Giovani Turchi, sulla loro presa del potere e sulle loro successive decisioni, tanto in politica ‎interna che in politica estera?‎

Eppure, sembra che il solo Maurizio Blondet si sia accorto di tutte queste curiose coincidenze e ‎abbia avuto il coraggio di fare due più due, mettendo insieme le varie tessere del mosaico, fino a ‎delineare un quadro complessivo assai diverso da quello che è stato descritto da generazioni di ‎storici professionisti delle più varie scuole.‎

Egli, infatti, nel suo saggio «Cronache dell’Anticristo» (Milano, Effedieffe Edizioni, 2001, pp. 19-‎‎22), ha così ricostruito quella vicenda:‎


‎«Già il 17 maggio del 1717 Lady Mary Montagu, moglie dell’ambasciatore britannico presso la ‎Sublime Porta, scriveva:‎

‎“ho osservato che la maggior parte dei commercianti ricchi, qui, sono ebrei. questo popolo ha un ‎potere incredibile in questo paese. godono numerosi privilegi, anche rispetto ai turchi di nascita. ‎tutto il commercio dell’impero è nelle loro mani. ogni Pascià ha il suo ebreo come uomo d’affari; ‎questo ne conosce tutti i segreti e il business. non v’è transazione o commercio o questione che non ‎passi per le loro mani. […] Anche i commercianti inglesi, francesi e italiani sono costretti a servirsi ‎della loro mediazione. Nessuna operazione viene fata senza di essi, e il più umile di loro è ancora ‎tanto importante che guai a chi lo offenda, perché tutta la comunità difende i suoi interessi come ‎quelli del più influente fra loro (“Ebrei di Turchia” di Giacomo Saban, su “La Rassegna Mensile di ‎Israel, 8 aprile 1983, P. 74).‎

Di fatto, mentre l’Impero Ottomano diventava giorno dopo giorno “il malato d’Europa”, ‎affondando nella corruzione, nell’arbitrio e nei debiti contratti verso le banche estere, “tutte le ‎funzioni importanti delle finanze pubbliche” ottomane (attesta Saban) erano in mano degli ebrei. Un ‎Ezechiel Galiban salì al rango di “banchiere di corte”, amministratore del debito del Divano. Persino ‎il corpo dei giannizzeri, queste SS ferocissime della Sublime Porta, avevano regolarmente intendenti ‎israeliti, di cui ilo più famoso per influenza e potere fui Behar Carmona. […]
Israelita era di fatto ormai la classe dirigente ottomana: non solo medici e avvocati, ma giudici e ‎membri del Consiglio di Stato. Perrsino l’Ammiraglio medico della Scuola di medicina Militare ‎imperiale era ebreo. Nel numero, è difficile sapere ormai quanti dirigenti ufficialmente “turchi” ‎appartenessero, con nomi turchi, alla comunità cripto-giudea dei Dunmeh.Si sa che i Dunmeh furono ‎l’anima dell’intellettualità progressista, vivacemente nutrita dalla cultura europea, ricca di relazioni ‎con Paesi occidentali anche lontani, , con rapporti d’affari con le più importanti “merchant banks” di ‎Londra, con la Borsa Granaria di Varsavia, con le potenze finanziarie germaniche e francesi. Fra gli ‎intellettuali e i giornalisti, proprio i Dunmeh (a ciò li facilitava il relativismo imparato nella segreta ‎dottrina familiare) rafforzavano le file dei “liberi pensatori”, dei radicali borghesi. […]
Dal fuoco di queste idee sorse l’associazione detta Giovane Turchia. Ricalcata sulla Giovane Italia ‎mazziniana, essa univa “gli ufficiali, ossia l’élite morale della nazione, e l’élite civile, ossia tutti i ‎rappresentanti delle professioni liberali”: così la descrisse il giornalista francese Alfred Berl sulla ‎‎“Révue de Paris” (pp. 303-317). Era la descrizione dei ceti sociali dove i sabbatei secolarizzati erano ‎più fortemente presenti. Scholem ricorda che “i dunmeh hanno esercitato un ruolo importante nel ‎Comitato Unione e Progresso”, l’organizzazione dei Giovani Turchi che ebbe origine a Salonicco”, il ‎centro culturale dei sabbatei.‎

Le idee riformatrici si propagarono soprattutto nell’esercito ottomano dall’alto verso il basso, dagli ‎ufficiali conquistarono i soldati. Il Risorgimento turco fu, in qualche modo, un “putsch” militare. »

È impossibile accertare se, come Blondet ipotizza, alcuni fra gli uomini più importanti del Comitato ‎Unione e Progresso furono, essi stessi, dei dunmeh, così come potrebbe esserlo stato perfino Kemal ‎Atatürk: perché, esteriormente, i dunmeh apparivano dei perfetti musulmani, tanto è vero che gli altri ‎Ebrei non li riconoscevano, e non li riconoscono, come appartenenti al giudaismo.
Rimane però estremamente probabile che essi abbiamo esercitato un ruolo più importante di quanto ‎non si creda nell’intera vicenda della “rivoluzione” dei Giovani Turchi e anche nelle vicende degli ‎anni successivi, fino alla prima guerra mondiale e alla tragica “soluzione finale” del problema ‎armeno.
È noto che i fatti della storia devono essere interpretati, non parlano da soli; ma quando i fatti sono ‎numerosi e vanno nella stessa direzione, allora suggeriscono una ben precisa direzione per il lavoro di ‎ricerca.‎

Gli Ebrei avevano una vera e propria roccaforte nella città in cui era di stanza l’Ottava Armata turca, ‎iniziatrice del movimento; sparsi nell’Impero ottomano, esercitavano un ruolo decisivo nelle finanze, ‎nel commercio, in alcuni settori chiave dell’amministrazione e del governo; tramite il movimento ‎sionista, avevano fatto dei sondaggi ad altissimo livello, fino allo stesso sultano Abdul Hamid, per ‎ottenere l’assenso al rientro di migliaia di Ebrei dall’Europa in Palestina; avevano anche fatto ‎sondaggi presso il governo degli Stati Uniti, con il sostegno dei potenti banchieri ebrei-americani ‎‎(primi fra tutti, i Rotschild), e si accingevano a farne presso quelli britannico e francese; infine, una ‎loro setta segreta, i Dunmeh, particolarmente abile nel camuffarsi agli occhi delle autorità turche, ‎aveva giocato un ruolo non interamente chiarito, ma certo tutt’altro che secondario, nella presa del ‎potere da parte del “triumvirato” di Talaat, Gemal ed Enver.
C’è bisogno di altro, per suggerire agli storici una nuova direzione di ricerca e una nuova ipotesi di ‎lavoro, per quello che riguarda le vicende che precedettero e accompagnarono la nascita della ‎Turchia moderna?‎

Una cosa è certa: da quando esiste lo Stato di Israele, vi è una perfetta concordanza di interessi fra ‎esso e la politica del governo turco. Israele, nato facendo leva anche sul senso di colpa degli ‎Occidentali per l’Olocausto, e la Turchia moderna, nata sui cadaveri di due milioni di Armeni ‎sterminati a sangue freddo, marciano di comune accordo sullo scenario politico medio-orientale, ‎come si è visto in numerose occasioni, ultima delle quali la seconda guerra del Golfo voluta dal ‎presidente americano George Bush junior.‎

Coincidenze della storia. Lo Stato turco, che tuttora nega esservi stato un genocidio a danno degli ‎Armeni, pena il carcere, e che dedica grandi vie e piazze alla “gloriosa” memoria di uomini come ‎Talaat e Gemal, è oggi il migliore alleato di Israele nel Medio Oriente: i suoi amici, sono gli amici di ‎Israele (Stati Uniti d’America e Gran Bretagna in primis); i suoi nemici (un tempo l’Iraq di Saddam ‎Hussein, ora l’Iran di Mahmud Ahmadinejad), sono gli stessi nemici di Israele.
In mezzo, la tragedia degli Arabi palestinesi, iniziata quando migliaia di coloni ebrei, sull’onda ‎dell’idea sionista, cominciarono ad affluire in Palestina, ai primi del XX secolo, e culminata nel 1948 ‎e nel 1967, con la nascita di Israele e con la guerra dei Sei giorni.‎
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V.V

 
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