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050830 - Masseria delle allodole ormai fenomeno raro
COMMUOVE IL PIANTO DELLE ARMENE [http://www.giornaledibrescia.it/giornale/2005/08/29/13,CULTURA/BRI13T2.jpg] La scrittrice Antonia Arslan .Andrea Grillini La masseria delle allodole di Antonia Arslan è ormai, fenomeno raro per un autore italiano, un long seller: sin da quando, nel 2004, è stato pubblicato dalla Rizzoli, questo romanzo è in classifica, va a ruba nelle librerie e accumula un premio dopo l’altro. Già l’anno scorso ne vinse otto in pochi mesi: Premio Berto, Casanova, Fregene, Città di Bari, Selezione Campiello, Campiello Secondo Noi, Fenice-Europa, Stresa; e quest’anno ha ottenuto il Premio Lettori di Lucca, quello dei Lettori di Cuneo e quello Internazionale di Letteratura religiosa di Pagani (Salerno), e tra l’altro è finalista al Pen Club, «lo scrittore votato da scrittori», che sarà assegnato a Compiano il 3 settembre. Chiedo alla signora Arslan, padovana, perché secondo lei il suo libro riscuota tanto successo. «Credo che ciò che interessa ai lettori - dice - sia il fatto storico da me raccontato, che tutti capiscono essere stato volutamente rimosso dalla storia del Novecento e che invece è alla base di ogni successiva idea di genocidio. Penso che tutti rivivano con intensa empatia quei tragici eventi accaduti novant’anni fa, ma sempre attuali nella memoria dei superstiti e dei loro discendenti». La strage del popolo armeno rimane una delle pagine più oscure della storia. Perché quella gente inerme si meritò tanto odio da parte dei turchi? «Bisogna ricordare che non fu il popolo turco a perpetrare quella mattanza, ma fu il governo laico del Partito "Unione e Progresso", i cosiddetti Giovani Turchi che avevano preso il potere in seguito alla rivoluzione del 1908, esautorando il Sultano. Furono loro a decidere di eliminare o assimilare le antichissime minoranze etniche di stirpe indoeuropea e semitica presenti nell’Impero Ottomano, secondo lo slogan di purezza razziale "La Turchia ai turchi". Tra queste minoranze c’erano gli Armeni, i Greci e gli Assiri, tutti cristiani, e i Curdi, musulmani. Il momento di mettere in atto quel progetto di pulizia etnica arrivò quando i tre uomini che dominavano il Partito e il governo, Talaat pascià, ministro degli Interni, Enver pascià, ministro della Guerra, e Djemal pascià, ministro della Marina e capo dell’armata di Siria, fecero entrare la Turchia in guerra, nel novembre 1914, come alleata degli Imperi Centrali». «Gli Armeni furono le prime vittime, perché i più inermi e perché stanziati da secoli all’interno dell’Anatolia, sulla frontiera orientale dell’Impero. Alcuni di loro, certo, simpatizzavano per la Russia, ma la grande maggioranza era fedele al governo turco, tanto è vero che moltissimi si arruolavano nell’esercito. E nulla comunque giustifica lo sterminio di una popolazione». Di fronte a simili ferocie di uomini contro altri uomini sorge spontanea la domanda: come può un essere umano macchiarsi di tanta crudeltà? «Spesso la cattiveria umana appare senza limiti, così come la varietà delle forme di morte che l’uomo può infliggere ai suoi simili. Ma infinita è anche la misericordia dei giusti, che riesce ad emergere anche nelle situazioni più terribili. Il problema è che quando un governo totalitario decide di sterminare una parte della propria popolazione additandola come capro espiatorio, spesso, purtroppo, la gente comune lo segue. Attizzare l’odio è facile, disintossicarsene è difficile». Qual è la sua parentela con i personaggi della storia da lei raccontata? «I due protagonisti maschili sono mio nonno Yerwant, che viveva in Italia, e suo fratello Sempad, che era rimasto in Anatolia. Nella prima parte del libro racconto la storia del loro desiderio di ritrovarsi, dei loro sogni e progetti e del loro fallimento». Come convive con la parte armena della sua anima? «Qualche anno fa, mentre traducevo le poesie di Daniel Varujan, una delle prime vittime del genocidio, capii che dovevo scrivere la storia di questa parte profonda di me che fino allora era rimasta nell’oscurità. Oggi mi sento più italiana proprio perché non ho più dentro di me quella zona d’ombra irrisolta, e tutto mi sembra diventato più equilibrato». - I personaggi del suo libro sono tutti reali? «Quasi tutti, almeno di nome, perché di alcuni sapevo pochissimo e allora ho dovuto costruire intorno al nome tutto un carattere. Qualcuno ha pensato che certi episodi particolarmente avventurosi, come la fuga dal campo di prigionia nel doppio fondo di una carrozza, li avessi presi da qualche romanzone d’appendice, ma sono tutti fatti veri, tramandati dalla tradizione familiare».

V.V

 
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