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050804 - Armenia - Nagorno Karabakh=Giardino nero di montagna
Armenia - Nagorno Karabakh - 01.8.2005
Giardino nero di montagna
Reportage dal Nagorno Karabakh, un conflitto congelato da un tregua che regge sempre meno

Scritto per noi da Margherita Belgioioso
Agdam (Nagorno Karabakh) - Irina, 68 anni, sei figli di cui due invalidi di guerra, vive con il marito sotto un albero di gelso alla periferia delle rovine
di Agdam. Abita qui da quattro anni senza luce, acqua, né telefono, con un asino e dei polli. E con una pensione di quattro euro al mese. “Con queste bacche rosse facciamo la vodka più buona del Karabakh. Rimango qui perché qui almeno ho un lavoro” dice con una faccia che non si capisce se rida o pianga.
Il ‘lavoro’ consiste nel vendere ai rari passanti il suo latte, le sue uova e il suo matsoni, lo yogurt armeno.
A pochi isolati di distanza un vecchietto sorseggia il tè seduto fuori da una
rovina adattata a rifugio.

I rifugiati di Agdam. Qui ad Agdam, in Nagorno Karabakh, centinaia di profughi
di guerra vivono così.
“I rifugiati dell’Azerbaigian ricevono migliaia di dollari di aiuto ogni mese”
si sente ripetere da ogni angolo “e noi neppure un soldo”.
Lazar, 65 anni, il suo nome tatuato sulle nocche della mano, pastore di quattro
mucche, è stato più fortunato. La sua casa è stata bombardata, ma l’ha ricostruita grazie all’aiuto delle ong accorse subito dopo la guerra. Era stato
ferito alla caviglia e quindi oggi riceve una pensione di guerra più che dignitosa: 10 dollari al mese. Racconta dell’agosto ’92, quando le bombe sono cominciate a piovere sul suo villaggio, Askeran, che in tempi sovietici si chiamava ‘Cinque-anni-in-quattro’, lo slogan della propaganda per chiudere il piano quinquennale in quattro anni. Parla con nostalgia di quando c’era l’Urss,
“Poi è arrivato quell’idiota di Gorbachev e guardate che cosa ha causato”,
indica la vallata dove sono visibili solo le rovine informi di Agdam, “Da un giorno all’altro la gente è ammattita: gli azeri si sono messi a sparare sui karabaki e i karabaki sugli azeri. È lui il responsabile di tutto ciò”.

Una città fantasma. Agdam è una città fantasma. Il silenzio che vi regna è rotto solo dal cinguettio degli uccelli.
Dall’alto dei minareti della moschea sopravvissuta alla guerra si vedono soltanto rovine. In tutta la città è rimasto in piedi solo un pugno di edifici.
Non c’è un autobus, né una macchina. Solo qualche furgoncino di disperati che vengono qui a raccogliere, con aria colpevole, mattoni da usare per ricostruire le proprie case nella capitale Stepanakert. Solo loro riconoscono la città, ridotta a un labirinto di vie tutte identiche, sommerse di erbacce, arbusti e rampicanti dai fiori gialli.
L’accesso ad Agdam è vietato. Ma per le sue vie silenziose si incontrano anime perse che vivono di nascosto tra le rovine e viaggiatori che oziano in una piazzola aspettando un passaggio per continuare verso nord, verso i villaggi della regione di Manakert.
Qui è vietato anche scattare fotografie. Ufficialmente per ragioni militari, per evitare che gli azeri, dall’altra parte del fronte, individuino obiettivi strategici. In realtà, perché Agdam è la spaventosa testimonianza della distruzione portata dal più sanguinoso dei conflitti nati dal collasso dell’Unione Sovietica. Una guerra durata tre anni, che ha fatto 20 mila morti,
un milione di profughi, e ha distrutto le economie dei due paesi.


Lo Stato che non c’è. Il Nagorno Karabakh era un’enclave a maggioranza armena, cristiana, che Stalin decise di accorpare all’Azerbaigian musulmano con l’intento di governare meglio le popolazioni, spezzandone l’identità etnica.
Con la fine dell’Unione Sovietica, la regione autonoma del Karabakh decise di riunirsi alla vicina repubblica dell’Armenia: esplosero scontri tra la popolazione e presto scoppiò il conflitto per il controllo di questa regione montagnosa dalla natura selvaggia. Oggi, a dieci anni di distanza, non si è ancora arrivati a una vera pace, soltanto a un cessate il fuoco infranto varie
volte negli ultimi mesi, con almeno nove morti tra le due parti.
Dalla guerra tra Armenia e Azerbaigian è nato un terzo Stato, il Nagorno Karabakh. Uno Stato riconosciuto soltanto da se stesso, assente dalle cartine geografiche del mondo ma ben chiaro nella testa dei suoi abitanti, con una propria capitale, una costituzione, una bandiera, un visto per i pochi visitatori stranieri. Una realtà che dura da quindici anni e che oggi non è più
trascurabile dalla comunità internazionale.
“Lo stato del Nagorno Karabakh non è riconosciuto” dice il vice Ministro degli Esteri Masis Mayilian, “per ora” aggiunge dopo un istante. L’ufficiale riconoscimento del Nagorno Karabakh apre infatti una spinosa questione di diritto internazionale, perché si teme che provochi un effetto domino inarrestabile, con l’ammissione de facto del diritto di ogni regione di distaccarsi dalla propria repubblica madre e una raffica di richieste di indipendenza da regioni come il Kosovo, l’Abkhazia o l’Ossezia Meridionale.
Le maggiori vittime dell’indugio della comunità internazionale, e del pasticcio di leggi internazionali e riconoscimenti ufficiali, sono i 25 mila rifugiati che popolano le rovine di Agdam e le periferie della capitale Stepanakert.
Mentre la comunità internazionale temporeggia, i profughi del Nagorno Karabakh vivono senza case né aiuti perché sono profughi di un paese che non esiste. Per questo la comunità internazionale non può riconoscerne lo status di rifugiati e non può quindi garantire loro l’accesso ai finanziamenti delle organizzazioni internazionali. (Segue seconda parte)



V.V

 
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