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Nella piccola comunità cittadina si conserva il senso dell.identità nel ricordo del dramma da IL PICCOLO di Trieste
12 marzo 2010. pagina 14sezione:
Gorizia di DANIELA GROSS
TRIESTE Quando a metà degli anni Settanta del .900 William Saroyan, romanziere di culto per un.intera generazione, fece sosta a Trieste, un pomeriggio suonò senza alcun preavviso alla loro porta. Non si sa chi in quella lontana estate l.avesse indirizzato alla famiglia a lui del tutto sconosciuta degli Hovhanessian, armeni che qui trovarono iparo dal massacro turco e divennero celebri come pasticceri. Ma ancor oggi, ormai ultrasettantenne, Giacomo, allora in vacanza fuori città, coltiva il rimpianto di aver mancato quell.affascinante visita (Saroyan fu ricevuto da una zia) di cui gli rimane solo il pegno prezioso di una dedica.
Nessuno in famiglia si chiede però il motivo della visita del popolare scrittore di origini armene. «Era qui di passaggio perché stava andando a Belgrado per un film», ti dicono serafici. Perché nella diaspora armena, spiegano, è davvero normale, per chi si trova in un.altra città o in un altro paese, mettersi in cerca dei conterranei, scambiare qualche cortesia in armeno e vedersi ricevere come un vecchio amico.
È il senso di un.identità e di una storia condivisa ad animare, come un lievito magico, questo piccolo mondo divenuto noto anche al pubblico italiano grazie all.impegno di Antonia Arslan, autrice di .La Masseria delle allodole., romanzo che nel 2004 le valse il Campiello e che ha segnato una svolta nella presa di coscienza dello sterminio armeno. Un senso di comunità segnato nel profondo dalla memoria di quei drammatici fatti e dalla lunga querelle per il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia, che pochi giorni fa ha visto un ulteriore sviluppo con l.approvazione di una mozione in questo senso dalla commissione Esteri del Congresso degli Stati Uniti d.America.
In casa Hovhanessian si discute con perizia delle innumerevoli evoluzioni della diplomazia internazionale sulla questione armena. «Già ai tempi di Bush vi era stato un riconoscimento del genocidio, poi subito rientrato.
Obama stesso aveva preso un impegno analogo, che poi però si è rimangiato», dice Giacomo. «Per noi il fatto che la Turchia ammetta il genocidio avrebbe un enorme valore morale», spiega la figlia Adriana, 47 anni, docente di religione alle scuole medie. «I turchi temono invece che il riconoscimento possa preludere a un.ampia rivendicazione di terre o a richieste di risarcimento. Vi è poi il timore di vedersi paragonati, per quei massacri, alla Germania nazista e alla sua politica di persecuzione razziale: cosa che verrebbe a minare molti dei presupposti politici su cui si fonda la Turchia».
L.amarezza del presente si stempera però nei toni dell.affetto quando ripercorrono la gloriosa storia degli armeni nelle nostre terre. Gli
Hovhanessian, insieme ad altre cinque o sei famiglie che oggi vivono in città, sono gli ultimi discendenti di una realtà assai più numerosa che tra la fine del Settecento e la metà del secolo scorso contribuì alle fortune di Trieste. In quell.epoca tra via Tigor e via Santi i mercanti e gli artigiani armeni davano vita al cosiddetto borgo armeno, addensato intorno alla suggestiva la chiesa di via Giustinelli. Allora, quando Giorgio Aidinian faceva edificare i suoi caratteristici palazzi fortilizi, gli Hermet dominavano la scena politica e culturale e i Zingirian aprivano il loro primo Gabinetto ottico scientifico, facevano la loro comparsa in città gli Hovhanessian.
«Il primo ad arrivare, nel 1923, fu Garabed Bahschian in fuga da Costantinopoli a seguito delle persecuzioni turche», racconta Giacomo.
Garabed trova lavoro alla Manifattura tabacchi ma quasi subito decide di mettere a frutto la sua abilità di pasticcere. Un anno dopo vede dunque la luce la Fabbrica di dolci orientali di via Mazzini 5. Il negozio, con due belle vetrine e tavolini in marmo dove si può gustare il caffè turco, ha un.atmosfera orientale che piace ai triestini. Tanto che già un anno dopo Garabed chiama in aiuto i due fratelli della moglie, Kevork e Onnig Ohanessian, padre di Giacomo. Con il loro arrivo la pasticceria Bahschian fiorisce.
Famosa per il rahat lokum, per il paklavà (il re dei dolci armeni), per gli yoghurt serviti in vasetti di terracotta, diviene il punto di ritrovo di greci, armeni, ebrei. Ma il successo non riesce a cancellare il passato.«Per un lungo periodo . racconta Giacomo . ho dormit in camera con imiei genitori. Ricordo che mio padre spesso si svegliava di soprassalto dalla paura. .I turchi vengono a prendermi., ripeteva. Allora ero un bambino e non capivo proprio di cosa parlasse».
La comprensione arriva molti anni più tardi, quando Giacomo legge .I 40 giorni del Mussa Dagh., il bel romanzo di Franz Werfel che ricostruisce la violenza contro il popolo armeno. È una scintilla da cui scaturisce una coscienza identitaria che con gli anni si fa sempre più nitida e si accresce di contenuti. «Oggi si parla molto del genocidio degli armeni è questo è un dato molto positivo . dice Adriana . Troppo spesso però si dimentica che alle spalle abbiamo 2000 anni di storia e di cultura. Ci piacerebbe che l.attenzione ubblica iniziasse a soffermarsi anche su questi aspetti».

SEGNALAZIONI Quanti sanno, qui a Trieste, che dietro la targa che dà il nome di Giacomo Ciamician alla strada che da via Tigor porta dritto giù fino a piazza Hortis si nasconde un grande chimico, precursore dell'energia solare per i suoi contributi alla fotochimica e alla comprensione della fotosintesi? Poche righe (e un ritratto) gli sono dedicate su Wikipedia in italiano, altrettanto breve (ma scientificamente più articolato) lo spazio presente nell'edizione inglese. Eppure Giacomo Luigi Ciamician, nato a
Trieste il 27 agosto 1857 e morto a Bologna il 2 gennaio 1922, meriterebbe ben di più, oggi che si parla tanto di energia solare, di fonti alternative ai combustibili fossili.
A riempire un vuoto storico e scientifico giunge ora un ricco volume, .Ciamician profeta dell'energia solare., che raccoglie in 232 pagine gli atti del convegno tenuto al Dipartimento di chimica dell'Università di Bologna (a lui intitolato) dal 16 al 18 settembre 2007 in occasione del 150.o anniversario della sua nascita. Ne esce il ritratto di uno scienziato di vastissimi interessi, visionario ma coinvolto nei problemi del suo tempo (fu consigliere comunale a Bologna e senatore del Regno), maestro di chimica, conferenziere e divulgatore, amante della musica e dei salotti culturali.
Più volte candidato al Nobel.
Nato da famiglia di origini armene, rimasto orfano di padre, Ciamician venne accudito dagli zii e a Trieste frequentò l'Imperial Regia Scuola Reale e di Nautica. Nel 1874 si trasferì a Vienna per studiare chimica e
scienze naturali, laureandosi a Giessen. Grazie all'appoggio del celebre chimico Stanislao Cannizzaro, rientrò in Italia e cominciò la sua carriera accademica, culminata nella cattedra a Bologna, dove insegnò chimica generale, organica e biologica. Profeta dell'energia solare e della chimica verde, resta famosa la conferenza tenuta a New York nel settembre del 1912, al Congresso internazionale di chimica applicata, poi pubblicata su .Science.. Ciamician venne per l'ultima volta a Trieste nel settembre del 1921, in occasione dell'XI Convegno della Società italiana per il progresso delle scienze, di cui fu presidente e animatore.
Non dimenticò mai le sue radici armene, tragicamente segnate dal genocidio del 1915 per opera dei turchi. E a scavare in profondità nel ruolo della comunità armena a Trieste è stata Yeghis Keheyan, ricercatrice del Cnr al Dipartimento di chimica della .Sapienza. di Roma, alla quale devo l'invio di questo volume. Keheyan ricorda come nel 1773 i mercanti e gli imprenditori armeni avessero acquistato nel centro della nostra città un quartiere in cui qualche anno dopo si stabilirono i Ciamician. E che la denominazione di via Giacomo Ciamician (già via degli Armeni) fu deliberata dalla giunta municipale in data 20 marzo 1922. A poche settimane dalla morte dello scienziato.




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