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050729 - Nagorno - Karabakh: tanti interessi convergenti su un territorio conteso
Poco popolata e neppure tanto estesa, la regione che nell’era sovietica era incorporata nell’Azerbaijan è ancora al centro di una disputa territoriale ultradecennale con l’Armenia. L’attenzione di numerose cancellerie sparse per il mondo è concentrata a seguirne gli sviluppi e gli equilibri delle forze in campo, tuttavia, sono più complessi di quanto si possa immaginare.

Giovanbattista Greco

Equilibri.net (29 luglio 2005)


Il Nagorno-Karabakh è una regione estesa circa 4.800 km² e popolata, secondo stime ufficiali del 1989, da 186.100 persone. La maggioranza degli abitanti è di etnia armena (73,5%), solo un quarto sono gli Azeri (esattamente il 25,3%).
L’economia della zona si basa su agricoltura e pastorizia, che assicurano una certa autosufficienza alimentare. Pur essendo formalmente incorporata nell' Azerbaijan, nel 1991, con la caduta dell'URSS, la regione dichiarava la propiria indipendenza, venendo riconosciuta, a livello internazionale, dalla sola Armenia. Questa mossa innescava, pur senza una formale dichiarazione di guerra, un'escalation militare tra Azeri e Armeni che ha visto, almeno per il momento, la vittoria di questi ultimi. Il Karabakh, di conseguenza, si trova attualmente sotto il controllo dell'esercito armeno che ne sostiene l'annessione a Yerevan.
Dal 1994, grazie alla mediazione russa, è in atto un cessate il fuoco tra i contendenti. Le vittime causate dagli scontri ammontano ad oggi a circa 35.000.
Nessuna delle parti in causa rinuncia affatto alle proprie pretese sull’area contesa, fornendo argomentazioni di tipo etnico e storico a sostegno del proprio diritto a controllarla. Il protrarsi della contesa rende quello del Nagorno-Karabah in assoluto il conflitto più lungo che abbia interessato Stati della ex Unione Sovietica da quando è caduto il regime comunista di Mosca.

Una guerra e due punti di vista

Come è facile intuire e come sempre accade, le due capitali in conflitto hanno una spiegazione assai diversa della guerra che le oppone. A Yerevan si condannano le aggressioni e le espulsioni di cittadini Armeni dal Nagorno e si tende quindi a giustificare con il richiamo alla legittima difesa il fatto che molti abitanti della regione abbiano imbracciato le armi. Proprio per avvalorare l’idea della guerra di liberazione combattuta da un popolo contro il suo oppressore, la propaganda dà grande spazio alle cifre dei volontari: 7.000, forse 8.000 sarebbero i giovani che avrebbero spontaneamente scelto di arruolarsi per combattere contro l’oppressione azera. A Baku, dal canto suo, l‘opinione pubblica e politica considera le argomentazioni del nemico un tentativo di camuffare la mala fede e le velleità di espansione territoriale.
Tutti negano che si sia consumata o sia in atto una qualsiasi forma di repressione, anche solo culturale e religiosa, nelle terre contese. In Azerbaijan, infatti, è diffusa la convinzione che a preoccupare gli Armeni sarebbe la mera influenza che la cultura turca e islamica sta esercitando sulle loro tradizioni, fenomeno usuale quando due modi di vivere vengono a contatto e inevitabile almeno quanto quello che gli stessi Azeri hanno dovuto subire durante l’era sovietica ad opera dell’ideologia comunista.

Nonostante il cessate il fuoco restano importanti questioni aperte: profughi, mine e razzie

Sebbene le armi per il momento tacciano, restano sospesi almeno tre importanti problemi che il conflitto tra Armenia e Azerbaijan ha prodotto. Prima fra tutte deve ricordarsi la questione dei rifugiati: circa 1.100.000 persone, 800.000 Azeri e 300.000 Armeni, hanno dovuto abbandonare le proprie case per sfuggire ai massacri. In assenza di sistemazioni più confortevoli, i fuggiaschi hanno trovato riparo in tende di fortuna; i meno fortunati alloggiano addirittura in vagoni ferroviari in disuso.
Ciò che più manca loro è l’assistenza medica, unita alla disponibilità di beni di prima necessità. Le agenzie internazionali, nei primi anni di conflitto, si sono fatte carico di rispondere ai bisogni primari delle persone. Nel 1996, ad esempio, l’UNHCR ha ricostruito 22 villaggi nella regione di Fizuli, dopo che l’Armenia aveva cessato di rivendicarla, permettendo agli abitanti di far rientro nelle proprie case.
Quando l’intensità del conflitto è calata, però, l’attenzione del mondo sui profughi del Nagorno è progressivamente diminuita. Significativo è quanto sostenuto a riguardo da Vugar Abusalimov, Information Officer per l’Alto Commissariato dell’ONU per i rifugiati in Azerbaijan: «La comunità internazionale ha cominciato a modificare la sua scala di priorità perché l’Azerbaijan non costituisce più il Paese numero uno in termini di crisi umanitaria». In virtù di queste considerazioni è facile comprendere come la situazione dei profughi stia diventando sempre più difficile: ricevono sempre meno cibo e per giunta di scarsa qualità. Anche le forme di sostegno integrativo che li riguardano, come il sussidio di 25.000 manat (pari a circa 9 dollari Usa) che il governo azero attribuisce ai propri cittadini in fuga dal Nagorno, non ottengono gli effetti sperati. Del resto quella dei profughi è anche una sfida di nervi tra le parti in conflitto: ciascuna evita accuratamente di fornire loro una sistemazione logistica adeguata al di fuori del Karabakh perché ciò sarebbe letto come un’implicita rinuncia alle proprie rivendicazioni territoriali. Accanto a quello dei profughi, un secondo problema da risolvere è quello delle mine che gli eserciti armeno e azero hanno disseminato nell’area.

Il Ministro dell’Agricoltura dell’autoproclamata Repubblica del Nagorno-Karabakh ha fornito dati secondo i quali ben 37 milioni di m² di campi e 35 milioni di m² di terreni da pascolo solo inutilizzabili per la presenza di tali armi. Ancora nei primi sei mesi del 2004 sono state 30 le persone interessate dallo scoppio di mine o di proiettili inesplosi: 11 sono stati i morti, 19 i feriti. Il numero degli incidenti è comunque diminuito dal cessate il fuoco del 1994, grazie anche all’opera di ONG come la britannica HALO Trust che solo lo scorso anno ha scoperto e fatto brillare 230 mine antiuomo, 164 mine anticarro e 680 ordigni inesplosi. Molto comunque va ancora fatto, secondo le testimonianze di chi opera sul campo, specie in relazione all’assistenza medica e riabilitativa di chi sopravvive agi incidenti determinati dai mezzi di offesa considerati.
Lo stato di incertezza prolungato in cui il cessate il fuoco ha collocato il conflitto impedisce inoltre che si ristabilisca un efficace sistema di amministrazione della giustizia nei territori contesi. In questo modo sono favoriti episodi di razzia, specie da parte degli Armeni. Essi, nella completa impunità, svuotano le case dei territori che hanno occupato di tutto ciò che contengono o le trasformano in una fonte di materiali da costruzione da rivendere in patria. Nella regione del Kelbajar i boschi vengono abbattuti per ricavare legna da ardere che viene trasportata verso Yerevan. Il senso di impotenza che gli Azeri provano rispetto a questo saccheggio, spesso condotto in maniera volutamente palese, accresce il rancore e l’odio verso gli occupanti e allontana i desideri di pace.

Gli interessi geopolitici ed economici nell’area

Il dato per cui gli Armeni sono in prevalenza Cristiani e gli Azeri praticano la fede musulmana unito all’osservazione secondo la quale i due popoli provengono da gruppi etnici diversi spiega perché il conflitto abbia una matrice profondamente religiosa ed etnica . La contesa tra Armenia e Azerbaijan si situa in un’area comunque attraversata da altre tensioni, data la vicinanza al Mar Caspio.
Lo specchio d’acqua, sede di importanti allevamenti ittici per la produzione di caviale che viene destinato soprattutto alle tavole dei Russi più facoltosi, nasconderebbe una ricchezza ben più pregiata.
Sotto le acque del bacino asiatico si troverebbero, secondo il Dipartimento del Commercio statunitense, qualcosa come 200 miliardi di barili di petrolio. La regione, dunque, si appresterebbe a diventare uno dei principali attori del mercato energetico dei prossimi decenni, qualcosa di simile a quello che il Mare del Nord rappresenta per l'Europa.
I cinque stati litoranei hanno diverso tempo discusso per raggiungere un accordo sul regime legale da attribuire al Mare in questione. Le opzioni maggiormente discusse sono state due: quella del “Closed Basin” (“Bacino Chiuso”), invocata da da Russia, Turkmenistan e Iran, volta a garantire lo sfruttamento delle risorse marine ai soli Paesi costieri, pur se con un grado variabile in base alla distanza dalla costa; e quella dell’”Open Sea” (“Mare Aperto”), conforme alle risoluzioni ONU e sostenuta dagli USA, che prevede l’individuazione di zone a disposizione di tutti gli Stati della comunità Internazionale. Il 16 maggio del 2003, dopo l’ennesimo tentativo di giungere ad una soluzione unanimemente accettata, Russia, Kazakhstan e Azerbaijan hanno convenuto, in un meeting ad Alma-Ata, che le aree di rispettiva pertinenza dovessero essere determinate con riferimento alla linea mediana della superficie contesa. Questa tecnica di suddivisione attribuisce al Kazakhstan il controllo sul 31% del bacino, all’Azerbaijan e alla Russia la sovranità sul 19%, al Turkmenistan una percentuale del 18%, all’Iran solo il 13%. Si capisce perché questi ultimi due Paesi, destinatari delle quote meno sostanziose, facciano fronte comune perché il Caspio sia diviso in cinque parti uguali.
L’insieme delle vicende appena riportate ha un’importanza notevole dato che esse in più di un caso aiutano a spiegare l’atteggiamento di alcuni Stati in relazione proprio alla vicenda del Nagorno.

La posizione russa

Le tensioni che lacerano le rive del Caspio sono da sempre al centro dell'attenzione di Mosca, sensibilmente preoccupata dal fatto che dalla caduta del comunismo ai giorni nostri si è registrato un sensibile calo della sua influenza nell’area, bilanciato dal proporzionale incremento di quella americana. Questo costringe la potenza europea a sviluppare una politica estera estremamente raffinata con l’obiettivo di conservare visibilità e peso internazionale e al contempo ridurre al minimo gli attriti con le repubbliche ex-sovietiche, che condurrebbero queste ultime più facilmente tra le braccia di Washington. Nella pratica, il tutto si risolve in un atteggiamento fortemente ambiguo riguardo la vicenda del Karabakh. Nel 1997, l'unione in consorzio, poi fallita, delle società LUKoil e Rosneft con la Azerbaijani State Oil Company (SOCAR) avrebbe fatto pensare ad un sostegno russo delle posizioni azere nella contesa del Karabakh. Lo stesso Azerbaijan, però, ha costantemente denunciato nelle sedi internazionali l'esistenza di un traffico clandestino di armi dalla Russia all'Armenia che ha facilitato l'invasione del suo territorio. Secondo dati provenienti da Baku, il valore dell'intera operazione ammonterebbe, compresi i costi di trasporto, a un miliardo di dollari. L’accusa non mancherebbe di prove: gli azeri sostengono di aver catturato diversi blindati T-72 che, da indagini approfondite, risulterebbero provenire proprio da Mosca.
La vicenda assume contorni particolarmente gravi se si pensa che gli stessi Russi, oltre che negli sforzi congiunti in sede OSCE, hanno tentato di accreditarsi anche individualmente come mediatori tra le parti in conflitto.

In fondo, le simpatie russo-armene non sono neppure poi tanto sottaciute, visto che il Ministro degli Esteri Ivanov, nel 2003, dichiarava che Yerevan costituiva l’unico vero alleato di Mosca al confine meridionale. Non è comunque opportuno per la diplomazia moscovita che si arrivi ad una vera e propria rottura con l’Azerbaijan. A suggerirlo è la circostanza per cui Mosca, oltre ad avere basi militari in Armenia, suo tradizionale alleato, controlla pure la struttura radar di Gabala, in Azerbaijan. Questa installazione, costata 10 miliardi di dollari, è di importanza fondamentale per la potenza russa dato che consente di monitorare il traffico aereo di Turchia, Iran, India, Pakistan, Cina e, addirittura, di alcune aree del Nord Africa. Il valore, economico e strategico, di questo avamposto giustifica da solo la conservazione di buone relazioni con il Paese che lo ospita, anche a costo di qualche malumore per gli amici armeni. La tensione che caratterizza attualmente l’area caucasica riserva ripercussioni negative non indifferenti per le autorità moscovite, rappresentate dalla difficile governabilità della questione cecena.
L’Azerbaijan, assieme alla Turchia, è infatti sospettato di aiutare direttamente la ribellione separatista, approfittando proprio della confusione che grazie alle guerre in corso regna a quelle latitudini. La ragione per cui Mosca, nonostante ciò, preferisce comunque non assumere una posizione netta su chi debba controllare il Nagorno è in realtà abbastanza semplice da individuare: dal caos non può che trarre corposi benefici. Consapevole che il suo appoggio ad una delle parti in lotta potrebbe contribuire a risolvere velocemente la questione del Karabakh, la superpotenza preferisce non schierarsi e ottenere così che il conflitto prosegua. In questo modo si aggrava la destabilizzazione dell’area e la conseguente debolezza delle Repubbliche ex sovietiche che la occupano. Per i Russi diventa così più semplice influenzare le scelte relative allo sfruttamento delle risorse energetiche che esse controllano.

I complessi legami turco-azeri. Le difficoltà di dialogo tra Ankara e Yerevan

La politica estera della Turchia ha risentito, per lunghi anni, di un’impostazione di stampo kemalista, che voleva Ankara poco propensa ad occuparsi di quanto succedeva fuori dei propri confini, salvo che per quanto riguardava le rivendicazioni su Cipro e la zona di Mossul, nel Nord dell’Iraq.
Queste due eccezioni erano comunque giustificate dal fatto che si trattava di territori considerati, almeno moralmente, di pertinenza turca.
Tale scelta di disimpegno era funzionale al mantenimento di buoni rapporti tanto con gli Stati Uniti d’America quanto con l’Europa. Sia a Washington che presso le cancellerie del Vecchio Continente, infatti, nessuno avrebbe visto di buon occhio il tentativo della Turchia di estendere la propria influenza verso il Caucaso: una mossa del genere sarebbe stata in contrasto con le esigenze americane di veder pacificata l’area e avrebbe creato problemi all’adesione all’Unione Europea dello Stato che controlla il Bosforo. L’indifferenza di Ankara verso ciò che le accadeva intorno si è riscontrata anche in relazione alla vicenda del Nagorno, concretizzandosi in una politica di neutralità che ha avuto costi non indifferenti, riconoscibili in un deterioramento dei rapporti con l’Azerbaijan, i cui cittadini condividono con i Turchi l’appartenenza allo stesso ceppo etnico e la religione musulmana. Pur se a livello di leadership i condizionamenti alla politica estera turca sono stati compresi sin da subito e tollerati (si pensi che le autorità di Baku non hanno mai chiesto espressamente aiuto ad Ankara), l’opinione pubblica azera ha letto nel mancato sostegno alle proprie posizioni rispetto all’affare Nagorno un tradimento del legame di fratellanza.
L’atteggiamento delle autorità di Ankara è mutato quando la necessità di un intervento diretto dei Turchi nel conflitto è divenuto il cavallo di battaglia di una sempre più ampia opposizione interna, comprendente il Partito Nazionale dei Lavoratori (MHP), il Partito della Sinistra Democratica e il Partito della Madrepatria. A quel punto, la Turchia si è riservata di controllare il traffico aereo di provenienza turca sui propri cieli e ha impedito che potessero attraversare i suoi confini i convogli di aiuti diretti a Yerevan.
L’operazione di sostegno agli Azeri è stata parte del più ampio disegno turco di perseguire con maggiore convinzione una sostanziale inversione di rotta in materia di politica estera, progettando il rilancio dell’immagine del Paese a livello internazionale con un particolare sguardo verso Oriente. Le difficoltà di dialogo insorte in sede di partecipazione all’integrazione comunitaria europea hanno rafforzato questo proposito.

La scelta di guardare ad Est è stata accompagnata dall’apertura delle università nazionali a studenti centroasiatici mentre sono sempre più numerosi i mezzi di informazione turchi che cercano di accreditarsi oltre i propri confini nazionali per conquistarsi nuove fette di pubblico.
Le conseguenze di questo nuovo atteggiamento non si sono fatte attendere: restando alla citata riscoperta del legame proprio con gli Azeri, essa ha comportato che la vicenda del Nagorno-Karabakh, registri ora un interesse presso i Turchi sensibilmente maggiore rispetto a qualche anno fa. Questi sono riusciti a stringere con Baku una collaborazione in campo energetico allo scopo di liberarsi dalla dipendenza dalle forniture di combustibili provenienti da Iraq e Iran. I primi risultati di questa sinergia non hanno tardato a mostrarsi e così il 25 maggio scorso è stato formalmente inaugurato l’oleodotto BTC, un opera che dalla capitale dell’Azerbaijan si snoda per 1.760 km fino al terminal portuale turco di Ceyan passando per Tblisi. Il progetto, che ha goduto del forte sostegno statunitense, ha dovuto fronteggiare diverse difficoltà di realizzazione in virtù dell’incertezza sulla sorte proprio del Karabakh.
Se l’Azerbaijan ha un ruolo chiave nella politica energetica turca e, in prospettiva, costituisce un ponte naturale verso i Paesi centroasiatici, non sembra possa prospettarsi un riavvicinamento a breve termine tra le autorità di Ankara e quelle dell’Armenia, nonostante le previsioni positive di taluni osservatori. L’ostacolo insormontabile al dialogo, ormai da lunghi anni, è rappresentato dal contestato genocidio degli Armeni ai tempi dell’Impero Ottomano. Ciascuna delle parti legge l’evento storico in maniera diametralmente opposta: i Turchi, in particolare, accusati dello sterminio, addebitano le morti armene al peggioramento delle condizioni di vita causato dalla Grande Guerra. Neppure sulle cifre della tragedia, come prevedibile, c’è accordo, visto che ad Ankara non accettano in alcun modo la stima di 1,5 milioni di morti avvalorata dai discendenti delle vittime.
La questione risale al 1915 ma, nonostante siano ormai passati 90 anni, continua ad infiammare gli animi al punto che neppure un organismo appositamente istituito per un riavvicinamento delle parti, la TARC (Turkish-Armenian Reconciliation Commission), composto in prevalenza da diplomatici a riposo e sponsorizzato dagli americani, ha sortito gli effetti sperati.
Un segnale inequivocabile della pesante atmosfera che circonda i tentativi di riavvicinamento è arrivato di recente: é della metà dello scorso maggio, infatti, la notizia del rinvio di un convegno dedicato all’argomento la cui organizzazione era stata supportata da tre importanti università di Istanbul.
L’incontro di studio aveva lo scopo di dare una ricostruzione il più completa possibile dei fatti controversi, che secondo gli organizzatori sono stati troppe volte strumentalizzati politicamente. Forse per la prima volta si sarebbe data la possibilità ad uno studioso di riferire, in terra turca e in un contesto ufficiale, il punto di vista armeno sulla questione.
La scelta di posticipare l’evento a data da destinarsi è stata giustificata con riferimento all’esistenza di una campagna di pressione e minacce nei confronti dei responsabili della conferenza. Questo dato già da solo conferma quanto la distanza che separi Ankara da Yerevan continui ad essere ben maggiore di quella esclusivamente geografica.

Gli equilibrismi iraniani: le affinità etniche contro la necessità di rompere il proprio isolamento L'Iran ha la fortuna di costituire la strada più veloce per il trasporto verso Ovest del combustibile estratto nella regione del Mar Caspio e dell'Asia Centrale. E' ovvio, allora, che Tehran non abbia alcuna intenzione di restare fuori dalle decisioni sul destino dei flussi asiatici di petrolio e gas che si intende incanalare verso l’Europa. Come prevedibile, le scelte che suscitano maggiormente l’attenzione degli Ajatollah sono quelle riguardanti il tracciato degli oleodotti che si andranno a costruire. Per avere voce in capitolo in questo campo è necessario poter contare su adeguati strumenti di pressione dei governi detentori dei giacimenti. Questi strumenti all’Iran non mancano: la carta che gli Ajatollah possono giocare per entrare a pieno titolo nella partita del trasporto energetico è rappresentata dalla minoranza azera che vive nei confini iraniani (circa 15 milioni di persone).
Per far fruttare questa risorsa, l’establishment di Tehran ha capito di dover dare una svolta all’atteggiamento di freddezza tenuto nell’ultimo decennio nei confronti del vicino, anche a causa della disputa in merito ai confini marittimi proprio nel Mar Caspio cui abbiamo fatto cenno in precedenza. Dopo lungo tempo dall’ultima visita di un leader iraniano, il premier Khatami si quindi è recato a Baku ad incontrare il suo omologo azero e ha avanzato la richiesta di un rafforzamento dei rapporti bilaterali.
Nell’occasione, allo scopo di intensificare gli scambi lungo il confine comune, i massimi rappresentanti dei due Stati hanno concluso un accordo per accrescere il numero di collegamenti stradali e ferroviari che attraversano la frontiera e per la costruzione di una linea elettrica da Imisli, nel Sud dell’Azerbaijan, e Astara, al confine iraniano.
L’intricata rete di amicizie ed inimicizie esistenti a livello internazionale pone però l’Iran in una posizione meno semplice di quanto si possa immaginare.
Pur desiderando intavolare un rapporto preferenziale con Baku, gli Ajatollah non sperano affatto in un indebolimento dell’Armenia. Yerevan, infatti, gode del sostegno militare americano e mantiene ottime relazioni con i Paesi occidentali: semmai si trovasse a vivere un momento di difficoltà finirebbe per entrare ancor più nell’orbita di Stati che con Tehran hanno relazioni contrastate, se non ostili. Proprio l’Armenia, poi, è considerata dal governo iraniano un possibile ottimo mediatore tra il proprio Paese e l’Occidente nella prospettiva di una rottura dell’isolamento in cui la Repubblica Islamica si trova. Per tutte queste ragioni, il governo iraniano ha negli anni stretto una partnership militare e commerciale con Yerevan che non ha alcuna intenzione di cessare. La prospettiva, anzi, stando alle parti interessate, è quella di un rafforzamento, con la conclusione di un accordo per la costruzione di un gasdotto i cui lavori prenderanno avvio nel 2007.

La neutralità interessata degli USA

Gli Stati Uniti tengono una posizione di formale equidistanza nel confronto che impegna Armenia e Azerbaijan. La neutralità degli USA rispetto alla contesa che riguarda il Karabakh è un punto essenziale della politica estera statunitense nel quadrante. Sino all’avvento dell’amministrazione Clinton, addirittura non esisteva una presa di posizione ufficiale di Washington sulla vicenda che stiamo esaminando. L’atteggiamento americano oggi non è affatto mutato e un evento assai recente ci fornisce una prova lampante di questa affermazione: con un comunicato ufficiale del 1 marzo scorso, l’Ambasciatore americano in Armenia è stato costretto a chiarire che l’espressione “genocidio” da lui impiegata in occasione di un incontro con rappresentanti di gruppi filoarmeni con base negli USA per qualificare il trattamento subito dai loro antenati ad opera dei Turchi Ottomani nel 1915 è da ritenersi inappropriata al caso e frutto di una valutazione personale. Ad ogni modo essa non muta la posizione degli Stati Uniti in relazione al conflitto per il controllo del Nagorno-Karabakh, per il quale si auspica una soluzione negoziata.

Il fatto che gli USA evitino di sposare ufficialmente la causa di una delle parti in lotta non deve però far pensare che le amministrazioni americane che si sono succedute nel tempo non siano state affatto interessate all’esito della contesa. Se Mosca ritiene di poter trarre giovamento dall’acuirsi delle tensioni intorno al Caspio, ciò che preme da sempre agli Usa è invece l’esatto opposto: una pacificazione della regione. Solo quando sarà tornata la calma nell’area Washington potrà sperare di realizzare una linea di approvvigionamento energetico verso Ovest che passi per l’Azerbaijan piuttosto che per Paesi meno graditi agli americani come Iran o Russia. Il progetto ha una priorità altissima in quanto risponde alla politica di diversificazione delle forniture di combustibili che gli Americani perseguono da qualche tempo onde evitare di restare ostaggio, in questo settore vitale per l’economia, dei soli Paesi mediorientali, Arabia Saudita in primis. Perché il risultato di stabilizzazione sia raggiunto, gli USA non smettono di fornire aiuti economici alle Repubbliche ex sovietiche, specie a quelle del Caucaso Meridionale. In particolare, agli Stati intorno al Mar Caspio, solo nel 1999, sono stati riservati dal Congresso 228 milioni di dollari, il 17,5% dei quali (circa 39,9 milioni) vincolato al finanziamento di azioni per la ricostruzione e la soluzione pacifica dei conflitti attivi nell’area. Mentre però Yerevan è tra le capitali che in assoluto beneficiano maggiormente degli aiuti del governo americano, dalle sovvenzioni statunitensi era in origine completamente escluso l’Azerbaijan. Ai sensi della sezione 907 del Freedom Support Act (1992), nessun aiuto poteva essere indirizzato a Baku sino a quando non avesse cessato ogni offesa contro il territorio armeno e del Nagorno. In particolare si intendeva colpire il tentativo di determinare con la forza l’isolamento dal resto del mondo delle aree contese. La disposizione col tempo ha visto sensibilmente allentata sua portata restrittiva e non ha mai impedito comunque ad organizzazioni non governative americane di prestare la propria opera in Azerbaijan. Il legame che lega Baku alla superpotenza d’oltreoceano è tale che a breve da Washington potrebbero partire richieste per il controllo di basi aeree azere che sarebbero impiegate per far sentire la pressione militare statunitense sul vicino Iran.

L’impegno internazionale per la pace: il “Minsk Group” L’esame degli sforzi internazionali per una soluzione della crisi del Nagorno-Karabakh non può prescindere da una considerazione delle attività compiute in questa direzione in seno all’OSCE, (Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione e in Europa). Un gruppo speciale di 12 nazioni, guidato da Francia, Russia e Stati Uniti, è stato incaricato, nel 1992, di supervisionare e incentivare i negoziati. Ad esso appartengono, tra gli altri, le parti in conflitto (Armenia e Azerbaijan) e l’Italia. Per discutere degli ostacoli più rilevanti alla pace in maniera approfondita era prevista la celebrazione di una conferenza di Stati, programmata a Minsk. L’evento non si è mai tenuto, principalmente a causa della difficoltà di accordarsi circa la necessità di invitare o meno, in veste di negoziatori a pieno titolo, i rappresentanti del Nagorno. Ciò non ha impedito che i soggetti impegnati nello sforzo diplomatico venissero raccolti sotto la denominazione di “Minsk Group” (“Gruppo di Minsk”).
In circa dieci anni di attività, i suoi membri sono stati in grado di articolare ben tre diverse proposte di soluzione del conflitto, tentando altrettante operazioni di bilanciamento degli interessi in gioco. Nessuna di esse ha ricevuto attuazione e questo induce alcuni osservatori a considerare che il fallimento dell’azione internazionale possa essere derivato, oltre che dalla complessità della questione trattata, anche da errori di approccio.

Bisogna premettere sin da subito che la questione del Nagorno-Karabakh non si presta ad un facile inquadramento all’interno del sistema di fonti che fa capo all’organizzazione regionale in parola, dato che tra i principi accolti dal trattato istitutivo ve ne sono due che in talune situazioni, come quella che stiamo esaminando, si presentano in contrasto tra loro: il principio di integrità territoriale e quello di autodeterminazione. La prassi internazionale ha di recente mostrato maggior favore verso le ragioni dell’autodeterminazione rispetto a quelle di protezione della consistenza territoriale degli stati, per la crescente rilevanza dei diritti umani nell’ambito delle relazioni internazionali. In seno all’OSCE, invece, si è preferito sposare la soluzione inversa, escludendo che l’Azerbaijan debba subire alcuna diminuzione territoriale; la concessione più sostanziosa che può di conseguenza attribuirsi alla popolazione Armena del Nagorno e’il più alto grado di autogoverno all’interno dei confini dell’Azerbaijan accompagnato da una “garanzia di protezione”. Escludere a priori che si possa negoziare l’indipendenza dei territori contesi è già di per sé una pesante ipoteca sul processo di pace.
Un limite rilevante degli sforzi diplomatici è stato anche quello di aver coinvolto solo esponenti delle leadership al potere nei Paesi in guerra, senza dare spazio effettivo alla voce di altri soggetti, quali le opposizioni parlamentari, le ONG e soprattutto l’opinione pubblica e i rifugiati. Pur essendo evidente che le decisioni sulla prosecuzione o meno dei combattimenti vengano assunte da chi detiene il comando delle truppe, il ritorno a relazioni pacifiche stabili tra Armenia e Azerbaijan passa necessariamente per l’impegno che le rispettive popolazioni sono disposte ad offrire alla causa. Le proposte di pace, per trovare effettiva realizzazione, devono essere quindi il più vicino possibile ai bisogni e alle aspettative della gente, tutte cose che possono conoscersi perfettamente solo ascoltando, accanto ai potentati, l’uomo comune. L’esigenza di raccogliere informazioni dalla popolazione sulla base delle quali derivare proposte di soluzione del conflitto si sposa pure con una particolare caratteristica del conflitto del Nagorno-Karabakh che la diplomazia OSCE non sembra aver colto: la guerra in questione non è solo dettata da interessi economici ma si alimenta anche di sentimenti ed emozioni. Si pensi, ad esempio, alla questione relativa al controllo di Shusha, città che la tradizione voleva “invincibile” e considerata il “cuore del Karabakh”. Il fatto di averla dovuta abbandonare incalzati dall’avanzata del nemico, costituisce per gli Azeri un seria umiliazione, che nessuna contropartita potrà cancellare, ancor meno se essa, come spesso previsto, fosse meramente economica.
Alcuni studiosi della vicenda del Nagorno non rinunciano a muovere critiche anche alle regole che presiedono il funzionamento del cosiddetto “Minsk Group”.
In particolare, è sembrata tutt’altro che adeguata all’esigenza di chiudere la disputa territoriale in tempi brevi la disposizione che prevede la rotazione annuale della Chairmanship tra i Paesi che lo compongono. In sostanza, i responsabili del coordinamento dell’azione diplomatica congiunta non fanno in tempo ad approfondire le questioni principali che ruotano intorno al conflitto tra Armenia e Azerbaijan che sono costretti a passare il testimone a rappresentanti di altri Stati. La composizione del fronte di Paesi che in seno all’OSCE si occupa del Nagorno comporta che un’incidenza particolare sul processo di pace è esercitata dallo stato delle relazioni USA – Russia.
Diventa quindi inutile, quando le due superpotenze vivano un momento di attrito, per quanto la causa possa essere lontana dal quadrante asiatico, sperare che esse assumano atteggiamenti collaborativi per il buon esito dei negoziati.

Conclusioni:una fine del conflitto probabilmente lontana e sicuramente problematica

La complessità del quadro di interessi che ruotano intorno alla disputa territoriale in esame ci impedisce di pensare che nel breve termine possa passarsi da una tregua tra le parti alla cessazione definitiva dei combattimenti. Nell’attuale stato di cose anche sentirsi capaci di dettare una ricetta risolutiva della questione, avendo successo dove le diplomazie delle superpotenze hanno fallito, sarebbe un chiaro atto di presunzione. Mi limito quindi, ad approfondire quelli che riteniamo essere ad oggi gli ostacoli di maggior peso ad una soluzione definitiva della crisi. Primo fra tutti, penso che sia rilevante lo squilibrio delle posizioni esistente al momento tra i contendenti, dato che l’Azerbaijan ha 20% del territorio occupato dalle forze armene. E’ ovvio che questo comporti ripercussioni sul negoziato. La situazione di svantaggio in cui si trova induce Baku a chiedere che il conflitto venga risolto con un accordo globale che consideri congiuntamente il problema.

V.V

 
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