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La Grande Russia ricomincia da Erevan
da 'Occidente.t La Grande Russia ricomincia da Erevan Mosca stringe un accordo militare con l’Armenia e riallunga le mani sul “cortile di casa” Nei giorni scorsi la Russia e l’Armenia hanno rinnovato il trattato bilaterale di cooperazione militare, siglato nel 1995 e in scadenza nel 2020, estendendone la durata fino al 2044. L’accordo, firmato dal presidente russo Dmitrij Medvedev e dall’omologo Serzh Sarkisian, conferma la presenza dei militari di Mosca nella base di Gyumri (attualmente ce ne sono 5mila). La Russia, inoltre, s’è impegnata a sostenere economicamente e tecnologicamente la modernizzazione delle forze armate armene. L’intesa russoarmena ha forti ricadute geopolitiche sul Caucaso. A nessuno, infatti, è sfuggito che l’accordo è arrivato in un momento delicato, con l’ Azerbaigian che da un po’ di tempo minaccia (di nuovo) di riprendersi il Nagorno-Karabakh con la forza e a questo scopo ha innalzato la spesa militare fino a 2,15 miliardi di dollari. Cifra, questa, che supera l’intero budget nazionale armeno. L’enclave armena in terra azera costituisce lo storico pomo della discordia tra Erevan e Baku (se la contesero con le armi tra l’88 e il ’94), nonché la leva con cui Turchia e Iran, prendendo le parti dell’Azerbaigian, cercano di conquistare posizioni nella regione a scapito della Russia. Ribadendo il ruolo di “potenza tutrice” esercitato dalla Russia nei confronti dell’Armenia, Medvedev ha voluto lanciare un messaggio ai competitor, lasciando intendere che il Caucaso non scivolerà tanto facilmente fuori dall’orbita russa. Cosa che Mosca aveva già dimostrato due anni fa, quando smembrò la Georgia regalando l’indipendenza alla sue due province ribelli, Abkhazia e Ossezia del sud, che Tbilisi aveva cercato di riportare sotto la propria sovranità con una sprovveduta offensiva militare. L’accordo russo-armeno va letto, comunque, attraverso un prisma più ampio. Dal punto di vista di Mosca, infatti, non si tratta soltanto di mettere i paletti nel Caucaso. L’obiettivo è puntellare l’intero “estero vicino”, stabilendo accordi militari con i paesi un tempo parte dell’Urss, così da istituire una sorta di perimetro di sicurezza lungo i confini nazionali. Risponde esattamente a questa visione l’intesa con Kiev, varata poco dopo l’ascesa alla presidenza di Viktor Yanukovich, che prolunga fino al 2042 l’affitto della base navale di Sebastopoli, dov’è ancorata la flotta russa del Nero. Accordi della stessa pasta, riporta la stampa di Mosca, dovrebbero essere firmati prossimamente con Kirghizistan e Tagikistan. Forse con la Moldova, per evitare che un altro “conflitto congelato”, quello della Transnistria, si surriscaldi all’improvviso. Quella del Cremlino potrebbe sembrare una strategia difensiva, votata a tutelare la sicurezza nazionale. Ma non è solo questo. L’analista Dmitrij Trenin, vice direttore del Carnegie Center di Mosca, ha scritto sul sito di Radio Free Europe che la Russia sta rivisitando la sua strategia di politica estera, cercando di passare dalla priorità di contenere Nato e Occidente – che in verità si contengono da sole – alla promozione di una nuova immagine di sé: quella di una potenza che previene i conflitti garantendo la stabilità nell’area post-sovietica. L’accordo con l’Armenia, secondo Trenin, va analizzato anche sotto quest’ottica e rappresenta non solo un argine nei confronti di Teheran e Ankara, ma un deterrente contro l’ipotesi di guerra che tanto piace a Baku. Tuttavia, se vuole davvero percorrere questa strada, la Russia – annota sempre Trenin – ha bisogno di ripensare i rapporti con i paesi ex sovietici. Deve in altre parole trattarli non come alleati di seconda classe da blandire e manovrare, ma come soci indispensabili per la cogestione della sicurezza. Matteo Tacconi

G.C.

 
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