Zatik consiglia:
Iniziativa Culturale:

 

 

25 Ap 2010 - Nella piccola comunità cittadina si conserva il senso dell identità nel ricordo del dramma
il Piccolo .
di DANIELA GROSS TRIESTE Quando a metà degli anni Settanta del .900 William Saroyan, romanziere di culto per un.intera generazione, fece sosta a Trieste, un pomeriggio suonò senza alcun preavviso alla loro porta. Non si sa chi in quella lontana estate l.avesse indirizzato alla famiglia a lui del tutto sconosciuta degli Hovhanessian, armeni che qui trovarono riparo dal massacro turco e divennero celebri come pasticceri. Ma ancor oggi, ormai
ultrasettantenne, Giacomo, allora in vacanza fuori città, coltiva il rimpianto di aver mancato quell.affascinante visita (Saroyan fu ricevuto da una zia) di cui gli rimane solo il pegno prezioso di una dedica. Nessuno in famiglia si chiede però il motivo della visita del popolare scrittore di origini armene.
«Era qui di passaggio perché stava andando a Belgrado per un film», ti dicono serafici. Perché nella diasora armena, spiegano, è davvero normale, per chi si trova in un.altra città o in un altro paese, mettersi in cerca dei conterranei,scambiare qualche cortesia in armeno e vedersi ricevere come un vecchio amico. È il senso di un.identità e di una storia condivisa ad animare, come un lievito magico, questo piccolo mondo divenuto noto anche al pubblico italiano grazie all.impegno di Antonia Arslan, autrice di .La Masseria delle allodole., romanzo
che nel 2004 le valse il Campiello e che ha segnato una svolta nella presa di coscienza dello sterminio armeno. Un senso di comunità segnato nel profondo
dalla memoria di quei drammatici fatti e dalla lunga querelle per il riconoscimento del genocidio da parte della Turchia, che pochi giorni fa ha visto un ulteriore sviluppo con l.approvazione di una mozione in questo senso dalla commissione Esteri del Congresso degli Stati Uniti d.America. In casa
Hovhanessian si discute con perizia delle nnumerevoli evoluzioni della diplomazia internazionale sulla questione armena. «Già ai tempi di Bush vi era stato un riconoscimento del genocidio, poi subito rientrato. Obama stesso aveva preso un impegno analogo, che poi però si è rimangiato», dice Giacomo. «Per noi il fatto che la Turchia ammetta il genocidio avrebbe un enorme valore morale», spiega la figlia Adriana, 47 anni, docente di religione alle scuole medie. «I turchi temono invece che il riconoscimento possa preludere a un.ampia rivendicazione di terre o a richieste di isarcimento. Vi è poi il timore di vedersi paragonati, per quei massacri, alla Germania nazista e alla sua politica di persecuzione razziale: cosa che verrebbe a minare molti dei presupposti politici su cui si fonda la Turchia». L.amarezza del presente si stempera però nei toni dell.affetto quando ripercorrono la gloriosa storia degli armeni nelle nostre terre. Gli Hovhanessian, insieme ad altre cinque o sei famiglie che oggi vivono in città, sono gli ultimi discendenti di una realtà assai più numerosa che tra la fine del Settecento e la metà del secolo scorso contribuì alle fortune di Trieste. In quell.epoca tra via Tigor e via Santi i mercanti e gli artigiani armeni davano vita al cosiddetto borgo armeno,addensato intorno alla suggestiva la chiesa di via Giustinelli. Allora, quando Giorgio Aidinian faceva edificare i suoi caratteristici palazzi fortilizi, gli Hermet dominavano la scena politica e culturale e i Zingirian aprivano il loro primo Gabinetto ottico scientifico, facevano la loro comparsa in città gli Hovhanessian. «Il primo ad arrivare, nel 1923, fu Garabed Bahschian in fuga da Costantinopoli a seguito delle persecuzioni turche», racconta Giacomo. Garabed trova lavoro alla Manifattura tabacchi ma quasi subito decide di mettere a frutto la sua abilità di pasticcere. Un anno dopo vede dunque la luce la Fabbrica di dolci orientali di via Mazzini 5. Il negozio, con due belle vetrine e tavolini in marmo dove si può gustare il caffè turco, ha un.atmosfera
orientale che piace ai triestini. Tanto che già un anno dopo Garabed chiama in aiuto i due fratelli della moglie, Kevork e Onnig Ohanessian, padre di Giacomo.
Con il loro arrivo la pasticceria Bahschian fiorisce. Famosa per il rahat lokum, per il paklavà (il re dei dolci armeni), per gli yoghurt serviti in vasetti di terracotta, diviene il punto di ritrovo di greci, armeni, ebrei. Ma il successo non riesce a cancellare il passato. «Per un lungo periodo. racconta Giacomo . ho dormito in camera con i miei genitori. Ricordo che mio padre spesso si svegliava di soprassalto dalla paura. .I turchi vengono a prendermi., ripeteva. Allora ero un bambino e non capivo proprio di cosa parlasse». La comprensione arriva molti anni più tardi, quando Giacomo legge .I 40 giorni del Mussa Dagh., il bel romanzo di Franz Werfel che ricostruisce la
violenza contro il popolo armeno. È una scintilla da cui scaturisce una coscienza identitaria che con gli anni si fa sempre più nitida e si accresce di
contenuti. «Oggi si parla molto del genocidio degli armeni è questo è un dato molto positivo . dice Adriana . Troppo spesso però si dimentica che alle spalle abbiamo 2000 anni di storia e d cultura. Ci piacerebbe che l.attenzione pubblica iniziasse a soffermarsi anche su questi aspetti». RIPRODUZIONE
RISERVATA



G.C

 
Il sito Zatik.com è curato dall'Arch. Vahé Vartanian e dal Dott. Enzo Mainardi;
© Zatik - Powered by Akmé S.r.l.