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TRA TURCHIA E ARMENIA E PACE DOPO L'ULTIMO LITIGIO
da ILGIORNALE.it
Primo storico accordo tra i due Paesi. Ma la firma slitta di tre ore per controversie sulla dichiarazione finale Festa rovinata. Protocollo sconvolto. L'Università di Zurigo, dove ieri era in programma la firma dello storico accordo tra Turchia e Armenia per la normalizzazione dei rapporti bilaterali, sembrava a un tratto una chiesetta di
campagna dove illustri ospiti aspettano più del dovuto una sposa titubante.
Nell'Aula magna dell'ateneo svizzero c'erano alcuni dei massimi esponenti della diplomazia mondiale, protagonisti più o meno diretti del riavvicinamento tra le due nazioni dopo un secolo di gelo per il genocidio armeno e oltre tre lustri di blocco economico per la guerra in Nagorno Karabach. Il segretario di Stato Usa Hillary Clinton, il ministro russo degli Esteri Sergej Lavrov, quello
francese Bernard Kouchner e l'Alto rappresentante per la politica Estera della Ue Javier Solana. Tutti in attesa del capo del dicastero armeno degli Esteri
Edward Nalbandian, che con la controparte turca, Ahmet Davutoglu, doveva siglare i due protocolli per la riapertura delle frontiere e la restaurazione
di rapporti diplomatici, annunciati da un mese. Un «intoppo dell'ultimo momento», però, modifica i piani. Nalbandian non gradisce qualcosa nelle
dichiarazioni finali. Rimane in albergo. Lo stesso dove la Clinton inganna l'attesa, mentre la delegazione Usa tenta di salvare il salvabile limando un po' qua e un po' là. Dopo «momenti di tensione», il segretario Usa e Nalbandian tornano all'Università. Pace è fatta. La firma arriva con tre ore di ritardo.
Anche se ha comportato solo un posticipo, l'«intoppo» è indice della tensione che circonda il dossier turco-armeno. Molti gli interessi in gioco e forti le
opposizioni al disgelo tra la Turchia e l'ex Repubblica sovietica. I protocolli di Zurigo abbattono l'ultima frontiera ancora in piedi della Cortina di ferro, ma soprattutto segnano un passo importante per la pace nel turbolento Caucaso,
condizione indispensabile per consolidare il ruolo della regione come corridoio per i rifornimenti energetici diretti in Occidente. A contribuire alla
distensione tra i due vicini, gli Usa e la Russia che ha avuto un brusco cambiamento di rotta dopo la mini-guerra con Tbilisi dell'agosto scorso. Il Cremlino ora è più interessato a marginalizzare la Georgia che a mantenere la sua influenza su Erevan; l'Armenia, incastrata nel Caucaso e senza risorse
petrolifere, spera di uscire dall'isolamento economico e commerciale che la rende dipendente dalle rimesse e dagli investimenti della diaspora; Ankara,
vera vincitrice del riavvicinamento, gioca la carta delle risorse naturali per abbattere le resistenze ed accelerare l'agognata adesione all'Ue.
Ma la partita è ancora aperta. Se in Turchia i nazionalisti sembrano essersi rassegnati alla pace col piccolo vicino, la potente comunità degli armeni
all'estero punta i piedi. Discendenti per lo più delle vittime dei massacri del 1915, i nove milioni di armeni sparsi nei cinque continenti continuano a
opporsi agli accordi con il governo Erdogan, senza il riconoscimento ufficiale del genocidio. Il fronte del no raccoglie consensi anche nell'opposizione
politica in patria. Per essere applicati i protocolli necessitano ora della firma di entrambi i Parlamenti. E il lieto fine non è garantito.

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Ai piedi dell'Ararat l'odio non è finito:
"Le vittime? I turchi"

da LASTAMPAweb

I protagonisti della mediazione Kouchner, Hillary e Lavrov

A Igdir il monumento sulle "stragi
degli armeni": «Siamo pronti alla
pace, ma loro dicano la verità»
MARTA OTTAVIANI
IGDIR
La ricerca della pace contro una ferita profonda, difficile da rimarginare.
Un confine che potrebbe essere aperto, contro una realtà ineluttabile, ossia che per i turchi nel 1915 a morire sterminati non furono un milione di armeni, ma migliaia di musulmani, e che sulla loro versione del genocidio non sono disposti a scendere a patti. A Igdir tutto questo si capisce nel raggio di pochi chilometri. È il capoluogo di provincia più vicino al confine armeno. Il varco di Alinca dista appena 10 minuti in taxi. Eppure chi si reca qui per questo motivo, quando arriva, ha l.impressione di aver sbagliato posto. Le uniche indicazioni che si trovano sono quelle del confine con l.Azerbaigian, che dista un.ora e mezza di auto.

Le indicazioni sono ovunque, insieme con negozi e ristoranti che portano l'immagine delle due bandiere nazionali intrecciate a simboleggiare il forte
contatto fra la Mezzaluna e la repubblica caucasica. Perché l.Azerbaigian è un Paese amico, con un retroterra comune. Dove sia la frontiera armena lo si deve chiedere espressamente. La risposta è sempre la stessa: «Non ci vada, è chiuso». E Alinca, dove sorge il varco, è un pezzo di terra morta ormai dal 1993, anno in cui la Turchia, in solidarietà proprio ai «fratelli azeri», interruppe le relazioni diplomatiche con l.Armenia. La causa scatenante della chiusura fu la guerra che Erevan stava combattendo con Baku per il controllo della regione del Nagorno-Karabakh, a maggioranza armena ma in territorio azero. Insieme la frattura mai sanata del genocidio armeno del 1915, un milione di morti uccisi in modo sistematico secondo la versione ufficiale, ma negato da Ankara, che contrappone una sua versione dei fatti, ossia 300 mila vittime uccise senza premeditazione, e migliaia di vittime fra i turchi, massacrati dai russi e dagli armeni.

Zurigo sarà il luogo della firma di un protocollo per la ripresa delle relazioni. Uno dei primi varchi riaperti potrebbe essere proprio quello di Alinca. Una prospettiva che piace alla gente ma che fa anche capire che fra una firma e la pace la strada è lunga. Alla stazione degli autobus è un coro: «Lo riaprano pure il confine, noi vogliamo essere amici degli armeni, però loro devono ammettere quello che hanno fatto», dice Murat, che siede in attesa della corriera. C.è chi ammette che nel 1915 ci fu un massacro, ma la colpa rimane degli armeni. «Gli armeni sul nostro territorio hanno sempre vissuto in pace - spiega Ilber Katathan, un signore anziano che parla come se fosse un testimone diretto degli eventi -. Poi però si sono alleati con i russi, hanno tradito e noi ci siamo dovuti difendere. L.Europa queste cose non le sa».

Per una delle tante contraddizioni insite quasi fatalmente nella Turchia moderna, Igdir incarna quello che forse in futuro, con il varco di Alinca, sarà il luogo della ripartenza, ma che di sicuro in questo momento è il simbolo di un confronto difficile se non impossibile. Questa città piccola e moderna, dove l'unica nota di vanto è rappresentare il punto in cui il monte Ararat si vede meglio, è famosa per ospitare il monumento più noto che celebra la versione turca dei fatti del 1915, ossia i massacri compiuti, e non subiti, dalla popolazione armena. Il suo nome ufficiale è Memoriale del genocidio compiuto dagli armeni contro i martiri turchi. Costruito nel 1997, è una spada in acciaio alta 36 metri che poggia su un basamento di marmo all'interno del quale è stato allestito un museo, con decine di pubblicazioni gratuite che illustrano la versione turca dei fatti.

Ogni mese viene visitato da migliaia di persone. Alle sue spalle c.è l'Ararat, montagna sacra per gli armeni e, dalla parte opposta del massiccio, Erevan, la capitale della repubblica caucasica, costretta a guardare quel luogo così importante da lontano da troppo tempo. Il direttore non c.è e i custodi invitano a fare un giro nella campagna circostante, dove secondo loro si trovano le fosse comuni dove giacciono i martiri turchi. Se gli si chiede del milione di morti armeni, dicono che è tutta un.invenzione perché le loro fosse non ci sono. Serhan, un giovane che ogni tanto va al memoriale a dare una mano e si improvvisa guida turistica: «Per noi - spiega - questo è un posto importante. Da un secolo ci giudicano tutti, ma che cosa ha sofferto il popolo turco non lo sa nessuno». Sì, ma gli armeni? «Quelle cifre sono gonfiate - chiosa secco - io spero che il confine venga aperto, ma loro devono dire la verità». Dove per verità si intende ovviamente la versione turca. Ad Alinca si arriva da un bel viale alberato. La zona è presidiata dall.esercito, non si possono scattare fotografie e i veicoli vengono fatti fermare a 200 metri dal confine vero e proprio. La visuale è interrotta da un.enorme bandiera turca, come se fosse un muro. L.Armenia non si vede. Nemmeno da lontano.

G.C

 
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