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turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura nel 2006, viene raggiunto da una notizia giudiziaria che lo riguarda.
corriere della sera
La scena si ripete. Alla vigilia di una importante uscita pubblica in Italia, lo scrittore turco Orhan Pamuk, premio Nobel per la Letteratura nel 2006, viene raggiunto da una notizia giudiziaria che lo riguarda. Quasi cinque mesi fa, il 14 maggio, mentre era in viaggio per una conferenza alla Fiera del libro di Torino, apprese la decisione della Corte di cassazione che aveva annullato la sentenza assolutoria di primo grado per una sua frase che riconosceva il genocidio degli armeni e il massacro dei curdi. Ieri la replica, alla vigilia dell.incontro pubblico che si terrà questa sera alle 18 al teatro Franco Parenti di Milano con Alessandro Piperno, per la presentazione del nuovo romanzo appena edito da Einaudi, "Il museo dell.innocenza": un flash dell’agenzia turca Anadolu comunica che «la Suprema Corte d.appello ha dato luce verde a tutti quei cittadini che, sentendosi offesi dalle dichiarazioni di Pamuk, intendessero intentargli causa per chiedergli un risarcimento danni».


Come in un incubo la discussione verte sempre attorno a quella coraggiosa dichiarazione fatta da Pamuk a un giornalista svizzero nel giugno 2006: «Noi turchi abbiamo ucciso trentamila curdi e un milione di armeni e nessuno, tranne
me, osa parlarne in Turchia». Tanto è bastato per incorrere nelle maglie dell’articolo 301, che prevede pene per chi offende la nazione. Pamuk, il più puro degli scrittori, che ha fatto della letteratura la sua prima ragione di vita, continua così a essere imputato di «lesa turchità», con il rischio di dover pagare milioni di nuove lire turche (la nuova lira turca equivale a circa metà di un euro) a tutti quei cittadini che intendessero citarlo per danni morali.


«La peggiore condanna che potevano infliggermi. disse Pamuk a Torino in apertura di una splendida conferenza letteraria. è farmi diventare un personaggio politico». Ma prima di passare a parlare di Italo Calvino, Carlo Emilio Gadda, Lev Tolstoj e Fëdor Dostoevskij, con tono pacato ma deciso accusò: «La giustizia in Turchia è politicizzata, non c.è vera giustizia senza libertà di espressione». Chissà se stasera lo scrittore di Istanbul, città cui ha dedicato un libro di straordinaria profondità ed erudizione e dove sta costruendo un museo in cui sono riprodotti tutti gli oggetti citati nel suo nuovo romanzo, vorrà commentare la decisione della Corte d.appello. O se vorrà farlo sabato mattina quando visiterà un gioiello della cultura milanese, la casa museo Bagatti Valsecchi.
In questo momento ci vengono in mente le parole di un.amica di Pamuk, la scrittrice Perihan Magden, autrice del romanzo "In fuga", condannata per incitamento alla diserzione per aver difeso le ragioni di un obiettore di coscienza gay, e condannata anche per aver accusato i fanatici che inneggiavano
all.assassinio del giornalista Hrant Dink, che scontò il carcere e poi fu ucciso per aver sostenuto quanto diceva Pamuk nell.intervista al giornale svizzero. In Turchia il vero pericolo, ci disse Perihan Magden nel maggio scorso, «non viene dall.islamismo ma dall.estremismo nazionalista e kemalista, dai discendenti di quell.élite che realizzò la rivoluzione laica e che dominano la società in maniera burocratica». E aggiunse: «Nel nostro Paese la differenza tra critica e diffamazione viene stabilita da un giudice in base a criteri molto soggettivi».


Criteri soggettivi. Così viene colpito non soltanto chi è accusato di offendere la nazione turca, ma anche chi come lo scrittore Nedim Gürsel non parla in termini corretti dell.Islam. A fine giugno il lungo processo contro Gürsel, istruito in base all.articolo 216 del codice penale (incitamento all’odio di razza, di classe o di religione) si concluse con un.assoluzione. Un tribunale stabilì che il suo romanzo "Le figlie di Allah" non aveva offeso l’Islam.
I giudici che in Turchia mettono sotto accusa gli scrittori non danno certamente una mano alle aspirazioni europee di questo grande e splendido Paese.

G.C

 
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