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16 05 2009 - Turchia, processo agli scrittori . Il caso Orhan Pamuk
il Corriere della Sera 16.5.09
TORINO — Atteso questa mattina al Lingotto come la vera star della Fiera del Libro, Orhan Pamuk, premio Nobel 2006, nel suo Paese è ancora costretto a difendere il diritto a esprimere la propria opinione davanti a un tribunale. La Yargitay, Corte di Cassazione, l'altro ieri ha infatti rigettato per la seconda volta il verdetto di un tribunale di Istanbul che lo aveva assolto dall'accusa di aver offeso la nazione turca.
Vilipendio alla «turchità» è infatti il capo d'imputazione previsto dal famigerato articolo 301, da poco emendato ma che continua a produrre vittime.

Il caso appena riaperto risale al giugno 2006, quando l'autore di opere il cui motivo conduttore è il dialogo tra le culture e il rispetto delle identità diverse, aveva dichiarato a un giornale svizzero:
«Noi turchi abbiamo ucciso trentamila curdi e un milione di armeni e nessuno, tranne me, in Turchia osa parlarne». Per la verità un amico di Pamuk, il giornalista di origine armena Hrant Dink, sostenne la stessa tesi sul genocidio del 1915 e fu condannato a sei mesi di carcere, quindi ucciso da un fanatico il 19 gennaio 2007. «Pensavo — dice Pamuk — che a macchiare l'onore di una nazione non fosse il parlare di certe sue ombre, bensì proprio l'impossibilità, il divieto di parlarne». La sentenza della Cassazione contro Pamuk si aggiunge al recente sequestro per oscenità di un libro di Guillaume Apollinaire, Imprese di un giovane don Giovanni, e all'apertura del processo, il 5 maggio, contro lo scrittore Nedim Gürsel, professore di letteratura turca a Parigi, autore di un romanzo, Le figlie di Allah, in cui racconta la nascita dell'Islam e dà voce ai nemici di Maometto, che rifiutavano il monoteismo.
Ma soprattutto si aggiunge ai quattro processi, riguardanti sempre la libertà di espressione, contro Perihan Magden, notissima scrittrice che ieri al Salone ha presentato il romanzo In fuga, tradotto in italiano da Elliot (pp. 240, 16), che racconta la storia di una madre con un eccessivo senso di protezione verso la figlia.
Per troppo amore vede nemici dappertutto e commette dei delitti in giro per il mondo: alla fine verrà uccisa dai gendarmi.

Qualcuno ha voluto vedere in questa storia di una madre possessiva una metafora di una patria che diventa soffocante al punto da mettere in pericolo la vita dei suoi figli. Perihan Magden e Orhan Pamuk sono molto amici, si frequentano a Istanbul, condividono interessi letterari e impegno politico:
nonostante le minacce e i processi hanno entrambi deciso di non lasciare il Paese, si battono per la libertà di espressione e per l'ingresso della Turchia nell'Unione Europea. Pamuk, che ha appena pubblicato da Einaudi la raccolta di saggi Altri colori (pp. 525, 21), in cui parla anche del processo che lo riguarda, ha scritto un articolo in difesa di Perihan, pubblicato dal «Guardian», in cui, dopo aver reso omaggio alle qualità letterarie dell'amica e alla sua sorprendente inventiva, ne traccia un profilo politico.
Perché Perihan Magden è diventata un personaggio politico per aver tenuto per una dozzina d'anni una rubrica sul quotidiano «Radikal», che le ha procurato non pochi guai giudiziari.
Pamuk nel suo scritto si sofferma sulla battaglia in difesa dell'obiezione di coscienza. In un articolo considerato offensivo per le forze armate turche, ha scritto Pamuk, «Magden ha difeso Mehmet Tarhan, che si era trovato in grave difficoltà per aver insistito a difendere il suo diritto a rifiutare il servizio militare per ragioni di coscienza.

Lei ha ricordato ai lettori turchi che l'Onu ha riconosciuto sin dagli anni Settanta l'obiezione di coscienza come un diritto umano, e che la Turchia — come l'Azerbaijan — non riconosce questo diritto. Mehmet Tarhan è un omosessuale, e poiché l'esercito turco giudica l'omosessualità come un difetto o un handicap, egli avrebbe dovuto essere esonerato dal sottoporsi a un esame fisico davvero degradante». Perihan Magden, condannata per incitamento alla diserzione e vilipendio alle forze armate, ha subito altri processi e altre condanne, l'ultima delle quali per aver criticato aspramente i fanatici che inneggiavano all'assassinio di Hrant Dink. «La differenza tra critica e diffamazione — dice l'autrice di In fuga — viene stabilita nel nostro Paese da un giudice, in base a criteri molto soggettivi. Non abbiamo una Costituzione come la vostra, che stabilisce inequivocabilmente la libertà di espressione. E negli apparati dello Stato e nella società sono attive organizzazioni semiclandestine che impediscono la crescita democratica del Paese. Forse in Italia non avete sentito parlare di Ergenekon, una organizzazione molto influente che è stata in parte smantellata. Alcuni dei suoi esponenti sono finiti in prigione.
Forse non è casuale che un dirigente di questa organizzazione, l'avvocato nazionalista Kemal Kerinsiz, e la presidentessa dell'Associazione di sostegno e solidarietà alle madri dei martiri (militari uccisi negli attacchi dei guerriglieri nazionalisti curdi del Pkk), la signora Pakire Akbaba, figurino tra i nuovi accusatori di Pamuk e allo stesso tempo siano i miei principali accusatori».

Il vero pericolo per la democrazia turca, sostiene Perihan Magden, «non viene dall'islamismo ma dall'estremismo nazionalista e kemalista, dai discendenti di quell'élite che realizzò la rivoluzione laica e che dominano la società in maniera burocratica. Prendiamo il caso del velo: perché proibirne l'uso alle ragazze musulmane, spesso provenienti da famiglie umili emancipate economicamente, che frequentano l'università?
È un'imposizione ingiusta e una discriminazione». La stessa opinione sulla questione del velo è sostenuta da Orhan Pamuk, che affronta il tema nello splendido romanzo Neve, nel quale un professore turco che ha vissuto a lungo lontano dalla patria scopre che la tutela della democrazia e dei diritti umani passa anche attraverso il rispetto delle tradizioni.
Il nuovo processo contro Orhan Pamuk, se andrà male, non finirà con la condanna al carcere, ma con l'imposizione di un risarcimento pecuniario ai turchi che si sono sentiti offesi dalle sue dichiarazioni sul genocidio armeno. Un risarcimento ben superiore ai trentamila euro richiesti in prima istanza. «Anche se sono soltanto soldi — commenta Magden — si tratta di un modo per tenerti sotto pressione. Anch'io devo pagare delle ammende per i reati di opinione di cui sono accusata. Vivo sempre nell'angoscia di riuscire a pagare, altrimenti finisco in prigione. Credo che anche Orhan Pamuk viva una difficoltà simile, anche se lui è il personaggio letterario più eminente del Paese, la gente lo ferma per strada per congratularsi.

La rispettabilità e il successo del nostro premio Nobel disturbano i nemici della democrazia, che lo costringono a girare con la scorta, a vivere sempre sotto pressione».

Dino Messina

C.A.

 
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