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04 04 2009 - Tutti i problemi di Obama si risolvono (o no) parlando turco Dossier su Iraq, Israele, Talebani, Siria e pace storica con l’Armenia.
Il Foglio.it › 4 aprile 2009 Tutti i problemi di Obama si risolvono (o no) parlando turco Dossier su Iraq, Israele, Talebani, Siria e pace storica con l’Armenia. Fra tre giorni il presidente ad AnkaraIl presidente americano atterra ad Ankara lunedì per gli incontri finali del suo tour europeo – e questo dettaglio, quello di essere la tappa conclusiva, delizia l’establishment politico turco. Barack Obama si fermerà soltanto per due giorni, anche se le cose da discutere richiederebbero almeno un’intera settimana: in questo momento la Turchia è la porta d’accesso in oriente per tutte le questioni che premono l’Amministrazione americana. Anche se sembra già materia del passato, finora l’annuncio più importante fatto dal presidente in politica estera è il ritiro dall’Iraq. E’ una questione enorme, ancora da definire: e non si può fare a meno della Turchia. Da dove si esce? Nel 2003 il governo di Erdogan negò le proprie basi per il grande attacco a Saddam Hussein e gli americani furono costretti a passare da sud, dal Kuwait. Ma oggi ritirare i mezzi e l’equipaggiamento arrivati in sei anni di guerra per gli stessi settecento chilometri di autostrada nel deserto sarebbe un incubo logistico. L’ha descritto bene uno dei più navigati analisti americani, Arnaud de Borchgrave, al Washington Times. Almeno diecimila camion, mille carriarmati, ventimila blindati: una coda che occuperebbe la distanza da Roma a Parigi e ritorno e impiegherebbe 75 giorni a esaurirsi. Ai quali vanno aggiunti almeno 30 mila pezzi di equipaggiamento pesante e ingombrante, da ritirare da trecento basi sparse per il paese e che non possono essere trattati né abbandonati sul posto. Per esempio, i giganteschi carri Abrams M-70 in avaria non possono essere riparati in Iraq e nemmeno lasciati laggiù, ma gli impianti per sollevare la torretta dal resto del corazzato da settanta tonnellate esistono soltanto in America. Passare da nordovest, dalla Turchia, taglierebbe tempi costi e rischi. La scorciatoia per l’esercito in retromarcia è una richiesta importante di Obama al governo di Ankara – che sembra già ben disposto, al contrario del 2003 – anche se ritirarsi, è già stato calcolato, sul medio termine costerà molto più che rimanere. Considerato che Obama è costretto a giocare al risparmio anche in politica estera, causa crisi, punta molto sull’appoggio turco. Washington ha richieste anche per l’altra grande questione strategica in Asia, la guerra contro i talebani in Afghanistan. Sul tavolo ci sono due dossier. Due giorni fa il presidente turco Abdullah Gül ha ospitato un incontro cruciale fra il presidente dell’Afghanistan, Hamid Karzai, e quello pachistano, Asif Ali Zardari. Tra i due paesi c’è un rapporto di collaborazione forzata, perché Kabul accusa i servizi segreti militari di Islamabad di combattere a fianco dei talebani. All’incontro ad Ankara erano presenti anche il capo dell’esercito pachistano, il generale Kayani – silenzioso, influente, legato a doppio filo agli americani – e il capo dei servizi segreti di Islamabad, nominato da lui. Mentre il mondo è distratto dal G20 londinese, è la Turchia seconda potenza Nato a cucire l’indispensabile patto di alleanza fra Afghanistan e Pakistan. Il secondo dossier riguarda l’incarico di prossimo segretario generale della Nato. Gli americani vorrebbero l’ex premier danese Anders Fogh Rasmussen, un atlantista risoluto che ha conquistato in anticipo l’approvazione anche di Germania, Francia e Italia. Sembrava cosa fatta, restava soltanto l’annuncio formale all’imminente vertice nato di Strasburgo che comincia domani. Ma il premier turco Erdogan si è impuntato, perché quando era premier danese Rasmussen ha difeso come libertà d’espressione le vignette satiriche su Maometto che scatenarono la rabbia del mondo islamico. Washington vorrebbe la collaborazione di Ankara. E magari anche un altro po’ di quei soldati turchi per l’Afghanistan: così preziosi, perché da sunniti sono ben visti dalla popolazione. Come se tutto questo non bastasse, la Turchia sta facendo da broker su un’altra questione chiave, il possibile accordo di pace fra Israele e Siria. Ci sono negoziati cauti in corso da tempo, perché la posta in gioco è alta: strappare il regime baathista di Damasco dall’alleanza con l’Iran e consegnarlo a un nuovo rapporto non ostile con Gerusalemme. La settimana scorsa Erdogan ha detto di essere pronto a riprendere la triangolazione diplomatica – si era interrotta a dicembre: il turco era al telefono con Damasco con il premier Ehud Olmert nella stanza accanto – e il neopremier israeliano Benjamin Netanyahu ha risposto definendo la relazione con Ankara “strategica”. Ma con il nuovo esecutivo la mediazione potrebbe essere più complessa: ieri il nuovo ministro degli Esteri Avigdor Lieberman ha smentito il possibile ritiro israeliano dalle alture del Golan. Secondo il Wall Street Journal, la Turchia approfitterà dell’arrivo di Obama per uno storico annuncio di pace con la vicina Armenia. I due paesi potrebbero riprendere le relazioni diplomatiche, riaprire i confini e formare commissioni congiunte per risolvere vecchi e cancrenosi punti di contrasto. L’uomo del Dipartimento di stato americano per l’area, il vicesegretario Matthew J. Bryza, è già sul posto per valutare in anticipo la questione. L’occidente vede con molto favore l’allentamento della tensione fra Turchia e Armenia. In cambio Ankara chiede al presidente Obama di rinunciare alla promessa fatta in campagna elettorale: promuovere al Congresso il riconoscimento con la fatidica parola “genocidio” dello sterminio perpetrato nel 1915 dall’impero ottomano contro gli armeni. La pace può agire positivamente a catena sui rapporti tesi dell’Armenia con il vicino Azerbaigian. Nel Grande gioco caucasico questa riapertura di confini è un grande punto a favore di Nabucco, il progetto di gasdotto con cui l’Europa vorrebbe rompere le catene della dipendenza energetica che la legano ai gasdotti della Russia. e di Daniele Raineri

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