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12 2007- S.S Karekin II, l’armeno che ha beffato Bush
lastampa 12.10.07
Il patriarca della diaspora negli Usa
CORRISPONDENTE DA NEW YORK
Circondato a Cambridge da centinaia di fedeli del Massachusetts, in prima fila a Washington per inaugurare il museo ai martiri del 1915, immerso in una
conversazione fiume con Nancy Pelosi a Capitol Hill e guida spirituale di sette milioni di armeni cristiani ortodossi, Karekin II è il leader, religioso ma
anche politico, che è riuscito a spingere il Congresso a riconoscere il genocidio subito dagli armeni per mano dei turchi, incrinando l’alleanza strategica fra Washington ed Ankara.

Nato nel 1951 nel villaggio di Voskehat, formatosi all’Università di Bonn e nei monasteri russi di Zagorsk, Ktrij Nersissian sale nella gerarchia
armeno-ortodossa fino a diventarne nel 1999 il 132° Patriarca Supremo con il nome di Karekin II e la missione di rigenerare una fede rimasta per quasi un
secolo sulla difensiva, dagli eccidi del 1915 all’oppressione subita durante l’occupazione sovietica dell’Armenia. La strada che sceglie punta molto sul
rilancio della Diaspora, a cominciare dagli Stati Uniti. Se nel 1999 esistevano all’estero appena 13 chiese armene oggi ve ne sono 250 e ciò non sarebbe stato possibile senza la mobilitazione degli oltre due milioni di fedeli cittadini degli Stati Uniti, che hanno trasformato la fede nel motore di un impegno
politico massiccio per ottenere dal Congresso la definizione di «genocidio» per la morte di 1,5 milioni di armeni attribuita alla repressione turca.

Per capire come sia stato possibile per una minoranza così numericamente ridotta - gli armeni sono meno dell’1 per cento della popolazione americana -
spingere gli Usa lontano dall’alleato turco bisogna partire da due gruppi di pressione di Washington: il Comitato nazionale armeno d’America (Anca) diretto
da Aram Hamparian e l’Assemblea armena d’America (Aaa) guidata da Bryan Ardouny. Ciò che accomuna Hamparian e Ardouny è la capacità di raccogliere ingenti fondi da una minoranza tanto integrata quanto di successo.

«La Chiesa è la nostra casa, Sua Santità e Karekin II è un leader forte che esprime ciò in cui crediamo» spiega Ardouny, leggendo il voto della commissione Esteri della Camera dei Rappresentanti come il risultato di «una battaglia dura che conduciamo da molti anni». A questa battaglia Karekin II ha partecipato di
persona, con due viaggi in America accompagnati da incontri con i deputati che guidano il gruppo pro-Armenia a Capitol Hill: il democratico Frank Pallone (New Jersey) e i repubblicani Joe Knollenberg (Minnesota) e George Radanovich (California). Ma l’abilità maggiore è stata, dopo le elezioni di Midterm che hanno portato i democratici a guidare entrambi i rami del Congresso, arruolare alla causa pesi massimi del Senato come Joe Biden del Delaware, presidente
della commissione Esteri, e Bob Menendez del New Jersey. Se negli ultimi anni la lobby armena era riuscita a cogliere vittorie significative ma minori come il blocco dei finanziamenti ad un’autostrada nel Caucaso che avrebbe aggirato Erevan, in agosto il tandem Biden-Menendez ha inflitto la prima sconfitta all’amministrazione Bush bocciando la nomina ad ambasciatore in Armenia di Richard Hoagland perché durante le audizioni continuava a rifiutarsi di
adoperare la definizione «genocidio» per i massacri avvenuti del 1915.

La vittoria contro la designazione di Hoagland ha anticipato di poco il secondo sbarco del Supremo Patriarca a Washington, dove si è incontrato con Nancy
Pelosi cementando un’alleanza di comune interesse: se agli armeni serviva il voto sul genocidio per sanare una storica ferita, per il presidente della Camera era un’occasione preziosa per ostacolare la guerra in Iraq, che ha costante bisogno del sostegno logistico turco e dunque di buone relazioni con Ankara. A suggellare il patto raggiunto è stata la presenza di Karekin II nell’aula della Camera - in piedi di fronte alla Pelosi - per pronunciare un discorso di omaggio al voto che era oramai sicuro sarebbe arrivato. Irritando Ankara, beffando la Casa Bianca e ponendo le premesse per un’intesa ancora più solida con i democratici se dovessero vincere la presidenza nel novembre 2008.

V.V

 
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