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17 04 2007 - ALDO RIZZO - Gli armeni come ricatto
da LaStampa .it
L’eccidio d’un secolo fa viene usato quale strumento di pressione dagli occidentali sui turchi e iceversa. Si può non rimuovere il passato senza pregiudicare il futuro
ALDO RIZZO
Si parla della Turchia per le tensioni che precedono le prossime elezioni presidenziali, ma anche o soprattutto per le nuove ricadute della questione armena sui rapporti tra il governo di Ankara e vari altri Paesi, senza escludere l’Onu. Il governo Erdogan ha chiesto e ottenuto dal nuovo segretario generale, Ban Ki-moon (criticatissimo dal New York Times), il rinvio di una mostra, al Palazzo di Vetro, sulle stragi dei tutsi nel Ruanda, nel 1994, perché un pannello faceva riferimento ad altre stragi, come quella di oltre un milione di armeni da parte dell’impero ottomano durante la prima guerra mondiale.

Per un motivo analogo, pochi giorni prima, Ankara aveva preannunciato la sospensione delle trattative col colosso energetico «Gaz de France», essenziale per la costruzione di un gasdotto dal Mar Caspio all’Unione europea, che ridurrebbe la dipendenza dalla Russia: salvo attendere l’esito delle doppie elezioni francesi, quindi il «profilo» politico del successore di Chirac e della sua maggioranza parlamentare. Questo perché l’Assemblea Nazionale aveva già votato una legge che definisce «genocidio» l’eccidio degli armeni tra il 1915 e il 1917, e ora toccherebbe al Senato completarne l’iter. Infine non è mancato un avvertimento, ovviamente non ufficiale, allo stesso Congresso americano, intenzionato a fare come l’Assemblea parigina, con la velata minaccia di chiudere la base americana di Incirlic e addirittura di vietare agli Usa lo spazio aereo turco.

E dunque, sempre più, la questione armena appare un caso tipico di retroattività della Storia. Nel senso che avvenimenti ormai vecchi di un secolo (la deportazione e l’eccidio di masse di armeni, sospettati, su istigazione del potente alleato tedesco, di connivenza con la nemica Russia zarista) interagiscono con le relazioni politiche in corso e condizionano i comportamenti di parlamenti e governi di oggi. Certo, anzitutto e soprattutto del governo turco, che pure non può essere chiamato in causa per fatti e misfatti di un secolo fa, ma che si ostina a considerare un’offesa alla nazione e alla ua «identità» l’accusa di genocidio, per questo passando sopra ai suoi attuali interessi strategici (dall’ingresso nell’Ue all’alleanza con gli Usa).
Oltretutto, come ha osservato ancora il New York Times, dimenticando che più cerca di bloccare il tema e più questo cresce, e «più lega la Turchia
democratica di oggi a crimini ormai lontani».

Ben detto. Ma bisogna aggiungere che può risultare «impolitico», cioè contrario ai propri interessi, anche l’atteggiamento di quei parlamenti e di quei governi occidentali che a loro volta si ostinano nella definizione giuridica, o addirittura legislativa, di quel «genocidio», paragonandolo senza indugi alla Shoah ebraica, ed esigendone il riconoscimento turco. C’è il rischio serio di un contraccolpo nazionalistico, con gravi conseguenze strategiche per l’intero sistema europeo e occidentale. Nonostante tutto, in Turchia, nei modi consentiti da quella cultura, che su questo punto unisce islamici e laici, un processo di revisione del giudizio storico sulla questione armena è concretamente cominciato, tra gli studiosi e sui media, spesso in chiave «bipartisan». E, più generalmente, pur tra resistenze e difficoltà, va avanti il processo di adeguamento delle leggi turche a quelle dell’Ue. La memoria delle antiche stragi non può essere rimossa, ma neppure si può «perdere» la Turchia d’oggi, riconsegnandola al passato.

V.V

 
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