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06 11 21-I due pascią bisogna andarli a cercare sulla «collina della Libertą Eterna»,
da LASTAMPA-ISTANBUL - il genocidio armeno
CLAUDIO GALLO
I due pascià bisogna andarli a cercare sulla «collina della Libertà Eterna», nel quartiere di Shishli, oltre piazza Taksim, il cuore moderno di Istanbul.
Si entra nel parco da una cancellata di ferro. Nonostante sia mezzogiorno è quasi vuoto. Si aggira tra gli alberi qualche vagabondo, occhi torvi e acquosi scrutano. Sulla cima della collinetta, a sinistra, ci sono due tombe spoglie, all’ombra di un portale di marmo dove sono impressi i nomi «Talat Pasa 1874-1921», e «Enver Pasa 1881-1922». Questo luogo, malgrado il senso di abbandono, è in realtà un simbolo potente di come la storia non vuole passare e i morti morire, gli innocenti come i colpevoli. I due uomini che guidarono l'ultimo Impero Ottomano sono considerati i principali responsabili del genocidio armeno, parola impronunciabile di fronte al 90 per cento dei turchi.

Talat fu ucciso a Berlino da Soghomon Tehlirian, un armeno che aveva perso la famiglia nelle stragi. L'assassino fu prosciolto e l'ex leader dei Giovani Turchi sepolto nella capitale tedesca. E' qui dal 1943. Enver, che dal ministero della Guerra aveva tenuto in pugno il paese, morì durante una carica di cavalleria contro i bolscevichi nel Turkmenistan, mentre ormai senza potere inseguiva ancora il suo sogno di uno stato panturco. Per gli armeni è come se qui fossero sepolti i loro Hitler e Himmler. Per i turchi, due leader dimenticati di un impero che l'infido Occidente tramò per disintegrare.

Lo stop dei militari L'ultima reazione di Ankara alla legge approvata in via preliminare dal parlamento francese per portare in tribunale chi nega il genocidio armeno, è stata la sospensione dei rapporti militari con la Francia, annunciata dal numero due dell'esercito, il generale Ilker Basbug, capo di tutte le forze di terra. Non male per due paesi che stanno insieme nella Nato. Un dentista armeno, nel quariere del gran bazar, «niente nomi, prego», spiega: «Nessuno qui pensa che i francesi vogliano fare davvero la legge. E' una ritorsione per l'articolo 103». Si tratta dell'articolo della costituzione (il governo ha appena promesso di modificarlo) che spedisce in galera per sei mesi «chiunque denigri l'identità turca, il governo eccetera». Grazie al 103 sono finiti sotto processo il Nobel Oran Pamuk e la scrittrice Elif Safak, poi prosciolti. Il giornalista armeno Hrant Dink è stato condannato con la condizionale: aveva offeso la turchità parlando di genocidio armeno. Il posto di Istanbul dove forse vivono più armeni è Kumkapi, qui c'è anche la cattedrale di Santa Maria e la sede del Patriarcato. Il quartiere si affaccia sul Bosforo con le sue bancarelle di pescatori e le viuzze interne zeppe di vecchi ristoranti di pesce. Il 26 agosto 1896 queste strade furono invase dai «softa» , la canaglia armata di mazze che talvolta il sultano Abd ul-Hamid usava per l'ordine pubblico. Nella notte morirono almeno 6 mila armeni in diversi zone. A scatenare il «pogrom» era stato il colpo di mano di venticinque armeni del gruppo terroristico «Dashnak» che avevano fatto esplodere bombe in tutta la città e occupato la sede della Banca ottomana a Galata, nella vana speranza di affrettare un intervento delle potenze occidentali.

A Kumkapi, un vecchio legge seduto davanti alla sua drogheria il «Jamanag», uno dei due quotidiani armeni, il più antico giornale della Turchia. Gli armeni in città sono 70 mila e la loro Chiesa è la più ricca e numerosa tra quelle cristiane nel paese. «Qui non si sta male - dice il bottegaio («niente nomi,prego») - Certo cento anni fa eravamo 250 mila, ma non stiamo male. Armeni,armeni, noi siamo turchi come tutti gli altri». Trasmissione finita: chiude il giornale, sputa educatamente per terra e torna dentro il suo negozio buio.

In armeno i massacri del 1915-16 si chiamano «Mezd Yeghern» , il Grande Male.
In quegli anni la triade al potere, Enver Pascià, Talat Pascià e Djemal Pascià, tutti capi dei Giovani Turchi, decisero che gli armeni erano una minaccia, perchè praticavano il terrorismo, parteggiavano per il nemico russo e volevano l’indipendenza. Ordinarono così una deportazione delle popolazioni dell'Anatolia Orientale. Fin qui nemmeno un turco avrebbe da obiettare.

Ma la grande maggioranza degli studiosi sostiene (Bernard Lewis è forse il più celebre tra i «negazionisti») che la deportazione fu pianificata come uno sterminio di massa. Nel suo rapporto del 1920 al Senato americano, il generale James Harbord scrisse che «i massacri e le deportazioni (...) furono organizzati secondo un sistema prestabilito». I giovani furono ammassati nelle sedi governative e uccisi, uomini vecchi e bambini furono avviati verso quelle che Talat Pascià chiamava «colonie agricole», in direzione delle pianure malsane dell’Eufrate, della Siria, dell’Arabia. Insieme con i soldati agivano bande di curdi che uccidevano, violentavano e depredavano i cadaveri. Molti morirono di fame, gli altri furono uccisi. Nel suo ultimo libro, fresco di stampa dal Saggiatore, «Cronache Mediorientali», Robert Fisk dedica un intero capitolo a quello che lui chiama «Il primo Olocausto». Fisk dà per buono un telegramma di Talat Pascià che ordina i massacri, nonostante qualcuno sollevi dubbi sulla sua autenticità, ma la parte davvero impressionante sono i racconti degli ultimi testimoni oculari che il reporter britannico è andato a scovare ai quattro angoli del mondo.

I testimoni oculari Ricordò Zakar Berbedrian, ormai morto, in un ospizio di Beirut: «Vennero i soldati e, davanti alle madri, presero i bambini uno per uno - avevano sei, sette, otto anni, e li lanciarono in aria facendoli ricadere sulle pietre. Se sopravvivevano, i soldati turchi li prendevano per i piedi e gli spaccavano la testa». Il capitolo è costellato di episodi come questo e talvolta di storie dei turchi che aiutarono le vittime a sfuggire alla morte. Gli armeni dicono che furono uccisi 1 milione e mezzo di persone, i turchi 300 mila, stime britanniche del tempo 800 mila. Allora i giornali parlarono unanimi di massacri di stato, il New York Times dedicò all'argomento 145 articoli nel solo 1915.

Le stragi avvenivano in aree sperdute dell'Anatolia. Nelle grandi città, dove c'erano molti occhi internazionali, la popolazione armena fu in larga parte risparmiata. Nel 1915 però, i principali intellettuali armeni di Istanbul e di altri centri furono arrestati e massacrati. Curiosamente oggi gli Stati Uniti sono tra i paesi, compresa Gran Bretagna e Israele, che non usano la parola «genocidio armeno», mentre la definizione è adottata da 21 paesi tra cui l'Italia. La repubblica turca che Mustafa Kemal ha tenuto insieme contro tutto e tutti, imponendo un titanico passaggio alla modernità ancora in corso, non vuole sentire parlare di genocidio. La tesi turca è che ci furono milioni di morti a causa della guerra e della fame anche tra i musulmani. In molti casi le vittime furono il risultato di scontri etnici sfuggiti di mano all'autorità centrale. Difficile trovare un turco che dissenta, anche se il particolare che in tutto il paese sia rimasto un solo villaggio armeno, Vakifli, fa venire i brividi. E’ vicino a Iskenderun (la vecchia Alessandretta), alle pendici del Mussa Dagh, il monte di Mosè, dove gli armeni resistettero per 40 giorni con le armi, poi immortalati dal racconto di Franz Werfel «I 40 giorni del Mussa Dagh».

Nel Caffé del grattacielo dell'Hotel Marmara, piazza Taksim, sembra di essere in una qualsiasi città europea, Gul Batus, 48 anni, insegna Giornalismo e Pubbliche Relazioni all'Università, è elegante, laica, progressista ma il genocidio è troppo anche per lei: «E' diventata una questione politica.
Bisognerebbe lasciare queste cose agli storici ma il dibattito è impossibile.
Recentemente in Francia e America è stata negata la parola agli studiosi turchi. Non c'è mai stata la volontà di sterminare un intero popolo, assurdo.
Nelle zone più lontane dalla guerra, come a Istanbul, gli armeni sono rimasti nelle loro case».

Ha spiegato lo storico Halil Berktay, un tempo maoista, a una troupe della Bbc venuta a Istanbul per intervistarlo: «Con il collasso dell'Impero Ottomano si sono create nuove nazioni, dai Balcani all'Arabia. Ciascuna era presa dalla rabbia e dall'odio verso le altre. Nessuno di questi nazionalismi ama parlare
di ciò che ha fatto agli altri. Ma possono parlare per ore e ore di quello che gli altri hanno fatto a loro».

V.V

 
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