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06 03 13 - Armenia - Nagorno Karabakh : Giardino nero di montagna
Armenia - Nagorno Karabakh - 01.8.2005
Nel Nagorno Karabakh, un conflitto congelato da una fragile tregua
Scritto per Peacereporter.net
Margherita Belgiojoso

Agdam (Nagorno Karabakh) - Irina, 68 anni, sei figli di cui due invalidi di guerra, vive con il marito sotto un albero di gelso alla periferia delle rovine di Agdam. Abita qui da quattro anni senza luce, acqua, né telefono, con un asino e dei polli. E con una pensione di quattro euro al mese. “Con queste bacche rosse facciamo la vodka più buona del Karabakh. Rimango qui perché qui almeno ho un lavoro” dice con una faccia che non si capisce se rida o pianga. Il ‘lavoro’ consiste nel vendere ai rari passanti il suo latte, le sue uova e il suo matsoni, lo yogurt armeno.
A pochi isolati di distanza un vecchietto sorseggia il tè seduto fuori da una rovina adattata a rifugio.

I rifugiati di Agdam. Qui ad Agdam, in Nagorno Karabakh, centinaia di profughi di guerra vivono così.
“I rifugiati dell’Azerbaigian ricevono migliaia di dollari di aiuto ogni mese” si sente ripetere da ogni angolo “e noi neppure un soldo”.
Lazar, 65 anni, il suo nome tatuato sulle nocche della mano, pastore di quattro mucche, è stato più fortunato. La sua casa è stata bombardata, ma l’ha ricostruita grazie all’aiuto delle ong accorse subito dopo la guerra. Era stato ferito alla caviglia e quindi oggi riceve una pensione di guerra più che dignitosa: 10 dollari al mese. Racconta dell’agosto ’92, quando le bombe sono cominciate a piovere sul suo villaggio, Askeran, che in tempi sovietici si chiamava ‘Cinque-anni-in-quattro’, lo slogan della propaganda per chiudere il piano quinquennale in quattro anni. Parla con nostalgia di quando c’era l’Urss, “Poi è arrivato quell’idiota di Gorbachev e guardate che cosa ha causato”, indica la vallata dove sono visibili solo le rovine informi di Agdam, “Da un giorno all’altro la gente è ammattita: gli azeri si sono messi a sparare sui karabaki e i karabaki sugli azeri. È lui il responsabile di tutto ciò”.

Una città fantasma. Agdam è una città fantasma. Il silenzio che vi regna è rotto solo dal cinguettio degli uccelli.
Dall’alto dei minareti della moschea sopravvissuta alla guerra si vedono soltanto rovine. In tutta la città è rimasto in piedi solo un pugno di edifici.
Non c’è un autobus, né una macchina. Solo qualche furgoncino di disperati che vengono qui a raccogliere, con aria colpevole, mattoni da usare per ricostruire le proprie case nella capitale Stepanakert. Solo loro riconoscono la città, ridotta a un labirinto di vie tutte identiche, sommerse di erbacce, arbusti e rampicanti dai fiori gialli.
L’accesso ad Agdam è vietato. Ma per le sue vie silenziose si incontrano anime perse che vivono di nascosto tra le rovine e viaggiatori che oziano in una piazzola aspettando un passaggio per continuare verso nord, verso i villaggi della regione di Manakert.
Qui è vietato anche scattare fotografie. Ufficialmente per ragioni militari, per evitare che gli azeri, dall’altra parte del fronte, individuino obiettivi strategici. In realtà, perché Agdam è la spaventosa testimonianza della distruzione portata dal più sanguinoso dei conflitti nati dal collasso dell’Unione Sovietica. Una guerra durata tre anni, che ha fatto 20 mila morti, un milione di profughi, e ha distrutto le economie dei due paesi.


Lo Stato che non c’è. Il Nagorno Karabakh era un’enclave a maggioranza armena, cristiana, che Stalin decise di accorpare all’Azerbaigian musulmano con l’intento di governare meglio le popolazioni, spezzandone l’identità etnica. Con la fine dell’Unione Sovietica, la regione autonoma del Karabakh decise di riunirsi alla vicina repubblica dell’Armenia: esplosero scontri tra la popolazione e presto scoppiò il conflitto per il controllo di questa regione montagnosa dalla natura selvaggia. Oggi, a dieci anni di distanza, non si è ancora arrivati a una vera pace, soltanto a un cessate il fuoco infranto varie volte negli ultimi mesi, con almeno nove morti tra le due parti.
Dalla guerra tra Armenia e Azerbaigian è nato un terzo Stato, il Nagorno Karabakh. Uno Stato riconosciuto soltanto da se stesso, assente dalle cartine geografiche del mondo ma ben chiaro nella testa dei suoi abitanti, con una propria capitale, una costituzione, una bandiera, un visto per i pochi visitatori stranieri. Una realtà che dura da quindici anni e che oggi non è più trascurabile dalla comunità internazionale.
“Lo stato del Nagorno Karabakh non è riconosciuto” dice il vice Ministro degli Esteri Masis Mayilian, “per ora” aggiunge dopo un istante. L’ufficiale riconoscimento del Nagorno Karabakh apre infatti una spinosa questione di diritto internazionale, perché si teme che provochi un effetto domino inarrestabile, con l’ammissione de facto del diritto di ogni regione di distaccarsi dalla propria repubblica madre e una raffica di richieste di indipendenza da regioni come il Kosovo, l’Abkhazia o l’Ossezia Meridionale.
Le maggiori vittime dell’indugio della comunità internazionale, e del pasticcio di leggi internazionali e riconoscimenti ufficiali, sono i 25 mila rifugiati che popolano le rovine di Agdam e le periferie della capitale Stepanakert. Mentre la comunità internazionale temporeggia, i profughi del Nagorno Karabakh vivono senza case né aiuti perché sono profughi di un paese che non esiste. Per questo la comunità internazionale non può riconoscerne lo status di rifugiati e non può quindi garantire loro l’accesso ai finanziamenti delle organizzazioni internazionali. (Segue seconda parte)








Armenia - Nagorno Karabakh - 05.8.2005
Giardino nero di montagna (2)
Seconda parte del reportage dal Nagorno Karabakh, un conflitto congelato da 10 anni















Scritto per noi daMargherita Belgiojoso

Stepanakert (Nagorno Karabakh) - (Segue dalla prima parte) I mattoni, le piastrelle e i cavi elettrici rubati dalle rovine di Agdam sono serviti a ricostruire la ‘capitale’ del Nagorno Karabakh, Stepanakert. Qui i segni della guerra non si vedono più: le strade sono state riparate e la vita scorre come se niente fosse mai accaduto. Almeno a prima vista.
Un tempo Stepanakert era un città mutietnica, abitata da armeni e azeri. Oggi di azeri ne sono rimasti molto pochi, praticamente solo quelli che non hanno i soldi che gli permetterebbero di andarsene via.

Economia di guerra. In città l’acqua a singhiozzo scorre per due ore a giorni alterni. Le fabbriche di tè e di tappeti, fiorenti nel periodo sovietico, sono oggi chiuse e fatiscenti. Le uniche attività economiche visibili sono quella dei tassisti che fanno avanti e indietro sulla strada di sei ore per Erevan e quella delle bancarelle che vendono vestiti ‘made in China’, le verdure degli orti e gli inimitabili zhengelevhats, l’orgoglio gastronomico nazionale: piadine calde imbottite di erbette verdi di diciassette tipi diversi, raccolte sulle montagne del Karabakh.
Per pagare gli stipendi dei dipendenti della pubblica amministrazione, delle università e degli ospedali, il governo si affida agli ingenti aiuti che provengono dalla diaspora armena, ramificata in tutto il mondo, dal sostegno economico ‘sotto banco’ del governo dell’Armenia, e dall’ingente assegno che il congresso americano assicura ogni anno a Stepanakert. Un sostegno difficile da giustificare per gli Stati Uniti, che da una parte accusano Erevan di occupare il Nagorno Karabakh, e per questa ragione l’hanno esclusa dal tragitto dell’oleodotto Baku-Tbilisi-Ceyhan, appena inaugurato, e dall’altra sostengono direttamente lo Stato reietto per un totale di 35 milioni di dollari in cinque anni. Una somma di cruciale importanza per uno Stato povero e che conta solo 180 mila abitanti.
Ma sostanzialmente l’economia gira ancora attorno alla guerra.
“E’ l’esercito senza dubbio la più grande fonte di entrate per la popolazione: 200 dollari, lo stipendio mensile di un ufficiale, è un’ottima paga per Stepanakert”, spiega Albert Voskanyan, armeno di Baku ma originario del Karabakh, direttore di una ong locale.
Né i giovani sembrano voler andare a cercare fortuna altrove. I sondaggi d’opinione condotti dal quotidiano Delo indicano che almeno 70 per cento della gioventù è convinta di rimanere a Stepanakert e cerca lavoro qui.

A messa in un teatro. “Stepanakert ai tempi dell’Unione Sovietica si vantava di essere una città di soli atei: neppure una chiesa è mai stata costruita. Una moschea esisteva, ma giaceva inutilizzata.” dice Albert Voskanyan, “Oggi abbiamo una chiesa dove possono pregare le nostri madri e i nostri figli” e indica la facciata neoclassica di un teatro. Il nuovo governo, nell’attesa che arrivino i soldi per costruire una vera chiesa, ha concesso agli abitanti di Stepanakert di adibire una stanza dell’ex teatro a luogo di culto. Sembra di essere nell’aula di una scuola, mentre il sacerdote leva la croce al cielo dando le spalle alla stanza gremita di fedeli inginocchiati con la testa velata. Nessuna icona, nessuna decorazione, solo il fumo intenso che sale dalle centinaia di candele accese. Stepanakert è una città recente, fondata nel 1917, e diventata capoluogo per volontà di Mosca. Ha 40 mila abitanti che si conoscono tutti e si salutano per strada, come il ministro degli Esteri, amico del proprietario di un piccolo alimentari nel centro. Sorta nel mezzo del nulla, a sei ore di curve da Erevan, alla fine di una strada lunghissima a due corsie che si percorre senza incontrare una casa o un campo coltivato. Una strada nuova di zecca, costruita con i soldi della diaspora armena, che i tassisti descrivono come la migliore del Caucaso. In epoca sovietica al suo posto c’era solo una mulattiera, e per raggiungere Baku o Erevan si era obbligati a giri lunghissimi.

Un pezzo di Armenia. Il ‘giardino nero montagnoso’, questo il significato letterale del nome Nagorno Karabakh, è collegato all’Armenia dal ‘corridoio di Lachin’, territorio azero oggi inglobato da Stepanakert.
Il Karabakh ha con l’Armenia un rapporto complesso, viscerale, eppure i karabaki si farebbero uccidere per la propria indipendenza. “Non daremo indietro la nostra terra per nulla al mondo” dice Anahit Marukhyan, la giovane direttrice dell’organizzazione karabaka erede del Komsomol sovietico. Gli armeni di Erevan parlano di Stepanakert come di una loro provincia, e assicurano che le radici di tutte le famiglie armene provengono da quelle terre. Ma a Stepanakert i karabaki si sentono karabaki, non armeni, né, tanto meno, azeri. Correggono chi chiama il Karabakh ‘Armenia’. Negano un legame politico e economico con l’Armenia, anche se i fatti lo confermano. Un funzionario del ministero degli Esteri smentisce che l’Armenia abbia mai contribuito alla guerra, sostiene che abbia soltanto offerto “sostegno umanitario”, mentre non è un segreto per nessuno che l’Armenia aveva qui i suoi carri armati e la sua artiglieria.
“L’esercito armeno e quello karabako sono effettivamente la stessa cosa” ammette un ragazzo che indossa ancora la divisa militare e sta tornando a casa, a Erevan, dopo avere terminato il servizio militare di due anni a Stepanakert.
Il ministro degli Esteri karabako risiede a Erevan mentre sul seggio della presidenza armena c’è oggi l’ex presidente del Nagorno Karabakh, Robert Kocharyan.Una complessa relazione che è evidente anche nella politica interna armena.
“La questione del Nagorno Karabakh è il parametro del successo politico in Armenia” sostiene Styopa Sefaryan, direttore del Centro Studi Nazionali e Internazionali di Erevan. “E viene strumentalizzata sia dalle élites armene Per risolvere la contraddittorietà di questo rapporto a Stepanakert indicano la bandiera appesa alla modesta facciata della Casa Bianca: le tre strisce dell’emblema armeno, rosso, blu e arancione, e un triangolo, distaccato, rivolto in direzione del corpo centrale. “È la metafora del Karabakh, indipendente, ma che tende verso la madre Armenia”.
http://www.peacereporter.net/dettaglio_articolo.php?idpa=&idc=6&ida=&idt=&idart=3320

V.V

 
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