Il nuovo Centro
Pompidou opera di un Armeno
Intervista
all'architetto anglo-armeno Gumuchdjian, coautore del progetto che
cambierà volto a una città - Da: Il Corriere della
Sera
Nascerà a Metz il nuovo e rivoluzionario Centre Pompidou
LONDRA
- È uno di quei progetti che possono cambiare il
destino di una città, come è successo con il «piano»
di Eugène Haussmann per Parigi o con il Guggenheim di Frank
O. Gehry per Bilbao: è il nuovo Centre Pompidou, prima succursale
ufficiale del Beaubourg parigino di Piano e Rogers, che vedrà
la luce a Metz, nella Francia orientale. Sarà un museo da
35 milioni di euro, la cui costruzione dovrebbe prendere il via
entro otto-dodici mesi per concludersi tre anni più tardi,
nel 2008. A firmare il nuovo progetto, una triade di nomi relativamente
noti: il giapponese Shigeru Ban, l'inglese Philip Gumuchdjian, il
francese Jean de Gastines. Qualcuno ha già velenosamente
definito il nuovo Beaubourg di Metz «un'architettura doppia
come piace ai francesi»: in effetti si tratterà, in
poche parole, di tre grandi gallerie principali tra loro sfalsate
e ricoperte da un'enorme tenda in materiale ad alta tecnologia.
Affiancati a questi elementi principali, troveranno spazio le strutture
di servizio e un grande giardino d'arte con opere di Calder o Serra.
Una bella sfida, quella di Metz, che consentirà (tra l'altro)
di rendere visibile anche quell'80 per cento della collezione permanente
del Pompidou di Parigi che attualmente trova collocazione nei magazzini
del museo. Nel suo studio dalle parti di Islington, nella zona più
creativa di Londra, l'angloarmeno Gumuchdjian anticipa così
alcune delle caratteristiche della nuova struttura, precisando ripetutamente
che «si tratta di un progetto comune firmato da tre architetti:
Ban, Gumuchdjian, de Gastines».
Come
sarà il nuovo Beaubourg?
«Sarà qualcosa di diverso ed eccitante, qualcosa di
vivo che combinerà l'arte con lo spazio urbano. Saranno tre
grandi tubi sovrastati da un enorme cappello ispirato a quelli dei
contadini giapponesi: nei tubi troveranno posto la collezione permanente
e le mostre temporanee, sotto il cappello i visitatori potranno
camminare e incontrarsi. In qualche modo, sarà l'ennesima
variazione sul tema del museo e sarà ancora una volta nel
segno del Beaubourg: come dimenticare, infatti, che all'apertura
del Centre Pompidou, tutti i musei sono diventati improvvisamente
vecchi, destinati solo ai tecnici?».
In
che cosa il vostro sarà diverso dal Beaubourg di Piano e
Rogers?
«In tutto. A cominciare dalla collocazione: la sede di Parigi
è profondamente inserita in un panorama urbano "forte",
caratterizzato da segni riconoscibilissimi. Qui a Metz, il nuovo
museo si collocherà invece in un'area vuota, dove tutto andrà
costruito ex novo. Il nostro progetto non è quindi solo per
un museo, ma per un museo corredato da giardini, strade, stazioni,
abitazioni: tutte realtà che trasformeranno completamente
Metz».
Perché
è stato scelto proprio il vostro progetto?
«Credo perché abbiamo cercato di creare un contesto
alla nostra architettura, non abbiamo voluto fare una cattedrale
nel deserto. Prima di tutto, abbiamo pensato a creare un futuro
a quella periferia, trasformando qualcosa che oggi non è
niente in qualcosa di bello. Il museo sarà il punto critico
di questo sviluppo. E poi anche perché abbiamo cercato di
creare una continuità con la città, puntando su un
concreto dinamismo tra l'interno e l'esterno, fra il dentro e il
fuori del museo».
In
che modo?
«Sotto il grande cappello, ci dovrà essere sempre movimento,
anche quando il museo sarà chiuso. Da lì si potrà
raggiungere, attraverso un grande giardino d'arte, Metz e il suo
centro storico. Ma non solo: ognuna delle grandi gallerie terminerà
con una enorme vetrata con vista su Metz e, ad esempio, sulla sua
bellissima cattedrale gotica di Santo Stefano: una cartolina della
città che farà da logica conclusione al percorso di
ogni visitatore».
Detto
così sembra un progetto bellissimo, ma anche difficilissimo
da realizzare.
«Non più di tanto. La parte più difficile da
mettere in piedi sarà forse quella delle gallerie principali,
mentre per il grande cappello non ci saranno grossi problemi: gli
ingegneri che lavorano con Ban sono bravissimi, rispetteranno i
tempi».
Il
vostro progetto sembra voler confermare il valore sociale dell'architettura...
«Lo spero. Perché sono fermamente convinto che un progetto
possa cambiare anche socialmente una città e che ci sia ancora
spazio per le buone ragioni dell'architettura, quelle stesse buone
ragioni che da piccolo mi facevano appassionare a "Blue Peter",
un programma per ragazzi messo in onda dalla Bbc dove si insegnava
a trasformare qualcosa che non era niente in qualcosa di bello».
Ci
sarà qualcosa di italiano nel nuovo Beaubourg?
«Per quanto mi riguarda, mi sono ispirato all'Italia nel tentativo
di sposare al meglio il vecchio e il nuovo: come non guardare al
Rinascimento e al modo in cui, all'epoca, i nuovi palazzi si erano
inseriti nel tessuto urbano medievale? E poi, come dimenticare Michelangelo?».
Come
è stato lavorare con Ban e de Gastines?
«Eccitante. Perché abbiamo incrociato tre culture:
la giapponese, la francese e l'inglese. E poi, perché apparteniamo
tutti alla stessa generazione, quella dei quaranta-cinquantenni».
La
sua è una storia particolare?
«La mia famiglia è stata una delle prime sessanta famiglie
che, tra le due guerre, sono arrivate a Londra dall'Armenia. Il
mio incontro fondamentale è stato quello con Sir Norman Foster:
prima con le sue architetture perché studiavo arte al Sainsbury
Center for Visual Art a Norwich, in un palazzo che proprio Foster
aveva progettato. Poi, l'ultimo anno, l'ho conosciuto. Gli ho parlato,
gli ho detto quanto mi piacessero le sue architetture. È
stato un colpo di fulmine».
E
allora?
«Ho deciso di laurearmi in architettura e ho cominciato a
lavorare nello studio di Richard Rogers. All'inizio facevo le fotocopie,
poi è arrivata la mia prima collaborazione importante, proprio
con Rogers, per il palazzo dei Lloyd's di Londra. Infine, sono venuti
i miei primi progetti: la casa sull'acqua a River Ilen in Irlanda,
la nuova casa-torre vicino alla New Tate, la Town House a Chelsea,
il fortino a Girona».
Che
cosa la lega a Foster e Roger?
«Tanto, forse tutto, li considero i miei "mentori".
Ma soprattutto credo che mi leghi a loro la consapevolezza del valore
sociale e politico dell'architettura. Un valore che nessuno, purtroppo,
ha ancora pensato di insegnare a scuola».
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