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Dove Urlano le pietre: Viaggio in Armenia

Tra danze popolari e accenti odierni. La rassegna «Folksongs» si è chiusa con la voce tagliente di Diamanda Galás, il duduk di Gevorg Dabaghyan, i suoni di Komitas, Mansurian e Gurdjeff

di MICHELE MANNUCCI

Ferrara - I due week-end di Aterforum quest'anno erano sotto un titolo apparentemente datato che porta i segni della migliore attualità, cioè della storia: Folksongs. Folk fu negli anni `60 la riscoperta e insieme la riproposta artistica delle musiche popolari, con una idea di purezza e di pratica d'autore diversa, talvolta ingenua, altre anche politicamente esplicita. Folk Songs furono anche un azzeccato lavoro di Luciano Berio, che spiazzò la musica facendovi rivivere con cenni strumentali e armonici contemporanei, di ricerca, fascini antichi e lontani. Alcuni li hanno affidati alla voce ironicamente suadente e frizzante di Cristina Zavalloni con Andrea Rebaudengo al pianoforte, insieme però con le canzoni dei Beatles riviste con spirito un poco irrispettoso da Louis Andriessen, allievo grande di Berio. E per il folk inglese, c'era una notte intera con John Renbourn che quasi lo inventò e Clive Carroll; Norma Winstone, Martin Carthy e Chris Parkinson. Alfio Antico con i suoi tamburi di pelle di «maledetta capra», accompagnato da contrabbasso e mandoloncello di Amedeo Ronga, rispondeva a Berio con l'attualità autoctona di musiche siciliane cresciute nel tempo. Se folk si riferisce alla musica di un popolo, trovava un senso profondo il programma delle ultime due serate, un affascinante e turbante viaggio nel popolo senza terra degli armeni. Qui, un sottotitolo, «il paese delle pietre che urlano», un verso di Osip Mandel'stam che suggerisce molto. Lo strumento dell'Armenia è il duduk, una sorta di oboe ad ancia doppia di legno di albicocco, albero tanto legato a quella terra che a Venezia i frutti si chiamano armelline. Più giovane di Djivan Gasparyan che si dedica soprattutto alla riproposta popolare, Gevorg Dabaghyan la affianca all'interpretazione di ampi lavori basati sulle strutture modali della musica colta araba e del vicino oriente. Accanto al duduk col quale Dabaghian conduce e elabora la melodia c'è quello Grigor Takusian che un tono sotto tiene un immobile bordone, anch'egli usando la respirazione circolare, e i ritmi sono scanditi da Kamo Khachaturian al tamburo dhol, ricco di sfumature di suono.

Il Novecento musicale è stato segnato, quasi sottotraccia, dagli Armeni. Nei primi anni del secolo fu soprattutto Sogomon Gevorkovic Komitas (Sogomonjan Gomidas), sacerdote, dottore in teologia e compositore, direttore di cori e didatta, etnomusicologo che, sfuggito al massacro degli intellettuali armeni di Costantinopoli durante gli eccidi e le deportazioni del 1915, fondò lo studio del folklore musicale armeno, di una patria divisa tra Russia, Iran e Turchia. La violoncellista Anja Lechner, interprete ormai matura e sicura nella complessa ricerca dei timbri molteplici e dei ritmi inconsueti, e il pianista greco Vassilis Tsabropoulos hanno arrangiato due dei suoi lavori innervati nelle danze popolari e insieme alcuni di George Ivanovic Gurdjeff, il maestro di pensiero e musicista ammirato e eseguito anche da Keith Jarrett. E soprattutto hanno presentato il Capriccio per violoncello solo e la Seconda Sonata per violoncello e pianoforte di Tigran Mansurian, il maggiore compositore armeno di oggi, che la Ecm sta proponendo in lavori di robusto spessore. La sua musica è fatta di continuità e forza di elementi apparentemente dispersi, di tensioni variabili spesso traversate da frammenti di canto incisivi e ammalianti, con una ricerca timbrica suprema che invita a trascorrere spesso, talvolta con acuminati silenzi, dal grave mai troppo suadente all'acuto mai troppo limpido, colori sempre complessi.

Alla stessa terra e cultura, e ai genocidi anche degli Assiri e dei Greci in Asia Minore, Ponto e Tracia tra il 1914 e il 1923, ha dedicato il suo ultimo doppio cd e il lavoro interpretato l'ultima sera nel Teatro Comunale di Ferrara la sempre coinvolgente performer greca Diamanda Galás: Defixiones Will and Testament, anche spiegato come «ordini dai morti». Sola in scena, ogni tanto al pianoforte quindi di profilo, altrimenti di faccia al microfono e al pubblico o ancora mentre si sposta, con l'elettronica che restituisce variata la sua voce in sottofondo. Sola vestita di nero in campo nero tagliato da luci, se si potesse, nere. La voce roca o straziata, scura e tagliente incide parole implacabili, apparentemente lontane come quelle del grande poeta Adonis dal diario dell'assedio di Beirut, o di Michaux, Celan, Vallejo, testimonianze di orrori, attualità. Che lei sottolinea con poche note, scabrose e vive, e convince, quasi senza gridare.