Zatik consiglia:
Iniziativa Culturale:

 

Anna Maria Samuelli
Tra memoria e storia
La tragedia del popolo armeno

“ memoria e storia”-scrive Pierre Nora- “lungi dall’essere sinonimi, sono in realtà concetti opposti. La memoria è vita, è momento costante della vita ….E’ soggetta alla dialettica del ricordo e dell’amnesia…., rimane latente per molto tempo, poi all’improvviso rivive”. Come raccordare memoria e storia, se la storia ha a che fare con il relativo, con quelle che sono state definite certezze disincarnate, e quindi ripetibili, mentre la memoria ha a che da fare con l’assoluto, con l’assoluta irripetibilità e soggettività delle esperienze?

L’oblio è sceso sulla tragedia del popolo armeno, vittima di un genocidio, dimenticato e negato. Allontanarsi da un passato di dolore, non sognare più la terra perduta, vuota d’umanità, guardare al futuro, è l’aspirazione di ogni armeno in diaspora. Ma la memoria appartiene in modo indissolubile al nostro presente e ci costringe a guardare dentro la storia per dare un senso al dolore e aprire la strada al cambiamento.

Alle spalle di ogni armeno vi è il primo genocidio del ventesimo secolo: il termine ha arricchito il vocabolario giuridico del novecento a partire dalla tragedia della Shoah e segnala con forza la radicalità dell’evento: crimine contro l’umanità, sterminio collettivo pianificato e preparato da un Stato, deportazione di un intero popolo, uomini, donne, vecchi, bambini. Destinazione: il nulla. Ad esso ne sono seguiti altri, in un crescendo di violenza e orrore che ha obbligato tutti a un nuovo rapporto con la storia e con la modalità I sopravissuti, esuli, dispersi, in diaspora cercano di ricompattarsi, di ricostruirsi in comunità culturale, di riconquistare tradizioni e valori.

Seguire la vicissitudini delle genti armene non è facile. Il nucleo originario è costituito da uno stanziamento di popolazioni indoeuropee, risalente a 1000 anni prima di Cristo, sul territorio dell’Anatolia orientale ( attuale Turchia) Verso il lago Van e l’area subcaucasica (laghi Sevan e Urmià ). Il massimo splendore è stato raggiunto tra il 95 e il 55 a.C., con l’impero di Tigran il Grande, ma in seguito gli armeni si ritagliarono una faticosa indipendenza tra i persiani, parti,medi, romani, bizantini, arabi, mongoli, fino al XIV- XV secolo, epoca in cui i turchi ottomani conquistarono le zone orientali dell’Armenia sino al Caucaso, ponendo fino ad ogni autonomia. Gli armeni diventeranno sudditi leali ( myllet sadiqa, nazione fedele) all’impero Ottomano.

Elemento essenziale dell’autocoscienza etnica degli armeni e del loro anelito verso l’occidente è il cristianesimo, dichiarato religione di Stato nel 301 e poi sviluppatosi in maniera autocefala rispetto al cattolicesimo romano ( introdotto nell’ Armenia storica dai missionari cattolica partire dal XII secolo, ma con una minore forza di penetrazione data la presenza del cristianesimo delle origini), mentre l’identità culturale, già visibile negli splendidi prodotti dell’architettura, è potenziata, dalla lingua scritta, di ceppo l’indoeuropeo, creata da Mestob Mashtoz agli inizi del ’400.

La coesistenza tra armeni e turchi ottomani, che per secoli aveva “tenuto” ( gli armeni , in particolare quelli delle aree urbane, fornivano funzionari, ministri, uomini d’affari legati all’occidente), cominciò ad incrinarsi nella seconda metà dell’800, in concomitanza con le tendenze riformiste fatte proprie da un settore della nazione armena, alimentate dalla Russia e dalle potenze occidentali, intenzionate a spartirsi le spoglie dell’Impero Ottomano in disfacimento, ma giustificate dalle condizioni di asservimento e di ineguaglianza tra musulmani e cristiani, aggravatesi soprattutto nelle aree dell’Armenia storica. A sud-ovest del Caucaso. Per la presenza di curdi nomadi e circassi di recente immigrazione e per l’incuria e la corruzione dei funzionari ottomani.

I pogrom antiarmeni organizzati dal sultano Abdul Hamid II alla fine dell’800 e agli inizi del ‘900 costituiscono le battute iniziali di un dramma che raggiunse il suo culmine il 24 aprile del 1915, data di inizio del “genocidio armeno”. L’ordine di deportazione fu impartito dal governo dei Giovani Turchi, espressione politica di quel nazionalismo esasperato che sull’onda delle passioni collettive dei primi anni del ‘900 aveva portato alcuni ufficiali progressisti ad abbattere il sultano e a progettare la modernizzazione del paese all’insegna degli ideali del panturchismo.

Un governo rivoluzionario, i cui esponenti avevano fraternizzato pochi anni prima con i rivoluzionari armeni a Parigi e che ora, trascinato il paese nella prima guerra mondiale a fianco della Germania e dell’Austria - Ungarica , organizzavano la liquidazione della questione armena: alla base l’idea di costruire un paese etnicamente puro. Disarmati ed eliminati i soldati di origine armena che presentava servizio nell’esercito turco, per timore che tradissero la causa turca schierandosi a fianco dell’impero russo, a, arrestati re uccisi i notabili di Istanbul, eliminata l’intellighenzia armena nel resto del paese, fu dato il via alla deportazione delle comunità armene su tutto il territorio verso il deserto mesopotamico, verso il nulla. Furono uccisi dalla fame, dai maltrattamenti dei tchetè dell’Organizzazione Speciale, dagli attacchi delle bande curde, dalle epidemie, rinchiusi in caverne e bruciati vivi, tra violenze inaudite (impiccagioni, crocifissioni, decapitazioni, annegamenti), e tutto ciò sulla strada della deportazione, con percorsi stabiliti, con tappe prescritte via telegrafo, e con l’aiuto di consiglieri tedeschi.

Un milione e mezzo di vittime, cinquecentomila profughi: gli armeni scomparvero dall’Anatolia e con essi le loro città, le loro chiese , le scuole, le biblioteche, i conventi- università, la loro millenaria cultura. I sopravvissuti si rifugiarono all’estero, alcuni furono aiutati dalla popolazione araba della Siria, altri trovarono asilo a nord-est ,nelle regioni subcaucasiche sotto il dominio russo.

Perché è accaduto ciò? Le risposte al lavoro dello storico che indaga dentro la modernità, i meccanismi del potere e del consenso, i progetti di rinnovamento e di rigenerazione, le illusioni del nazionalismo: certo il primo genocidio del XX secolo non può essere considerato né una risposta alle provocazioni armene, né una necessità dettata dalla situazione di guerra. E’ stato progettato, voluto e organizzato come tappa della realizzazione della nazione turca ad omogeneità etnica. E insieme è stata progettata la sua negazione.


La gente armena chiama il proprio paese Karastan, “terra di pietre”. Il paese delle pietre urlanti, scriveva Osip Mandel ‘stam un paese dove il bene se ne è andato, distrutto dalla violenza della storia, cui si aggiunge la violenza della sua negazione, che condanna le comunità e i singoli alla solitudine, alla “disunione con tutto l’avvenire”.

Appartenere ad una comunità in diaspora significa portare il peso della memoria, avere a che fare con questioni di vita e di morte. Nel passato dei sopravvissuti ci sono decapitazioni e crocifissioni, immagini di violenze efferate. Hanno cercato di rimuoverle, di cancellarle, l’oblio è sceso sulla loro storia, non nella loro anima.

Come dissolvere l’ombra dell’oblio? Con una ricognizione nel territorio della memoria che cerca la saldatura tra le generazioni, che consente di conquistare un concetto più vasto di patria, non quella dei padri, ma quella degli esseri umani.

Non è compito esclusivo degli storici pensare le tragedie della storia, cosi come i musei non possono essere i soli depositari della memoria. Ciascuno di noi è chiamato a riflettere su quelle che sono state definite “rotture di civiltà”, i genocidi e i crimini contro l’umanità di cui è costellato il XX secolo. Se la memoria non è un antidoto, è senz’altro un dovere. Troppe volte siano tentati di distogliere lo sguardo dal volto delle vittime, incapaci di recepire tragedie troppo grandi. Ma la verità della sofferenza, in ogni tempo e in ogni luogo, ci chiama in causa, ci fa scoprire la categoria della responsabilità, la differenza tra valori proclamati e valori vissuti, ci porta a rinnovare il nostro impegno nel presente. E questo può essere un modo di risarcire le vittime.

Assumersi l’onere della memoria significa assumersi anche l’onere della verità storica o, quantomeno, della tensione alla verità. In questo senso nonostante tutte le differenze, la storia e la memoria hanno un terreno comune.