L'Associazione di amicizia italo-armena Zatik si unisce al dolore dei familiari per la scomparsa del caro Alfonso Avanessian, e dedica queste pagine alla sua memoria.

Brevi note biografiche
di Agnese Sferrazza

La giovinezza

Tutte le biografie dedicate ad Alfonso Avanessian, di origine armena, sottolineano la sua nascita in terra straniera (era il 31 gennaio 1932), ma è solamente chiacchierando con l’artista che emergono i ricordi dell’infanzia e dell’adolescenza trascorsa nel quartiere europeo di Teheran, in quella sorta di enclave alto borghese nella quale gente proveniente da tutta Europa, armeni (come, appunto, lo stesso Avanessian, il cui padre era dirigente di una banca d’affari franco-persiana) e russi condividevano non solo la vita quotidiana, ma soprattutto culture e tradizioni le più diverse fra loro. Retaggi di vita coloniale e racconti di strada si mischiano nei ricordi di Avanessian, tra serate passate al Bar Riviera, dove ci si riuniva la sera per chiacchierare, discutere e bere un Campari e le risse di strada da ragazzino con i coetanei persiani, sbeffeggiato per l’aspetto europeo e la pelle chiara.
È curiosando fra le librerie russe e francesi del quartiere che il giovane Avanessian scova, finita lì chissà come, una vecchia monografia dedicata a Corot, che si rivelerà la chiave d’apertura al mondo della pittura: affascinato dalle immagini dei paesaggi mirabilmente ritratti dal pittore francese, che rimarranno per lungo tempo un importante punto di riferimento, Avanessian inizia a copiare incessantemente le opere dell’artista (in particolare quelle del periodo francese più che di quello romano) e vede così indelebilmente segnato il proprio destino artistico.
Di quel lontano paese, l’Iran, nel quale egli stesso dice di aver vissuto «da straniero», abbandonato prestissimo per intraprendere gli studi, rimangono oggi, nelle parole dell’artista, i ricordi legati ai suoni e ai profumi, il fascino delle botteghe di droghe e spezie e l’odore della terra bagnata dopo la pioggia, brevi sprazzi di colori e immagini che ritornano più o meno velatamente in tutta la sua produzione pittorica.
Ed è forse proprio per questa sensazione di essere stato uno “straniero in patria” che Avanessian non ritornerà nella terra natìa che a distanza di venticinque anni, e per un brevissimo soggiorno: un’ulteriore conferma – qualora ve ne fosse stato bisogno – dell’incolmabile distanza fra il suo essere ormai italiano a tutti gli effetti ed un mondo ed una cultura, quella mediorientale, che in fondo non gli sono mai appartenuti completamente.

La prima formazione

Giunto a Roma nel 1948, l’appena sedicenne Alfonso Avanessian partecipa al concorso per l’ammissione all’Accademia di Belle Arti. I quattro docenti della commissione, secondo la consuetudine, hanno l’opportunità di scegliere gli allievi migliori per far seguire loro i propri corsi ed Avanessian è “prescelto” dal napoletano Carlo Siviero, artista di comprovata tradizione accademica tardo ottocentesca. Nonostante ciò Avanessian chiede ed ottiene – senza alcun rancore da parte di Siviero – di poter essere trasferito alla cattedra di Amerigo Bartoli Natinguerra, considerato da molti meno esigente e più portato a lasciare liberi di esprimersi i giovani artisti. Ha così inizio ad un sodalizio artistico e personale che durerà fino alla morte di Bartoli nel 1971: non soltanto, quindi, un rapporto di normale alunnato con quello che può essere considerato il primo ed unico vero maestro del nostro, ma soprattutto un’intensa amicizia, nata ed accresciutasi negli anni grazie anche ad alcune piccole “manie” caratteriali in comune. Ne sono testimonianza le numerose foto che li vedono insieme ed anche da un intenso ritratto del giovane Alfonso eseguito dallo stesso Bartoli (Ritratto di Alfonso Avanessian, 1961).
Sono anni di studio intenso, di continue sperimentazioni e di indagine teorica (frequenta ed apprezza, in particolare, le lezioni di Lionello Venturi, ama la chiarezza di Argan): Avanessian cerca, prova, si interessa a nuovi e diversi linguaggi pittorici, in un incessante ed instancabile percorso di ricerca del proprio linguaggio espressivo. Non manca inoltre di osservare modelli già ben affermati e consolidati: in questi primi anni romani guarda con attenzione sia alla Francia che all’Italia, con una predilezione per Matisse, Bonnard, Braque, Rosai e De Pisis.
Il percorso artistico di Avanessian, iniziato con lo studio di Corot e dei grandi classici (fra cui, ad esempio, Rubens) e la predilezione per il naturalismo, quindi con lo studio dei “primitivi” e di Piero della Francesca, prosegue negli anni attraverso l’approfondimento della pittura toscana, poi di quella tonale, per riavvicinarsi infine nuovamente al naturalismo. Nasce in questo periodo, negli anni ’50, l’amore per una pittura “sobria” e attenta alla linea e al segno, alla costruzione della composizione, che ritornerà ciclicamente in diverse fasi della sua attività pittorica: una pittura in cui scarseggiano ombre e luci, per privilegiare un uso del colore a zone. Ed è soprattutto Roma a lasciare un segno indelebile nell’artista: Roma con i suoi paesaggi ed i suoi tramonti, con i suoi colori e i suoi scorci poetici, città affascinante ed amata come una vera patria; Roma, soprattutto, con il suo clima culturale vivace ed in continuo movimento, con le sue commistioni fra arte e letteratura, politica e vita quotidiana.
«Devo molto ai miei amici [...]da loro ho più avuto di quanto abbia dato»: è con queste brevi parole che Avanessian sottolinea l’importanza della crescita non solamente professionale, ma anche umana, che caratterizza questo periodo. Sono gli anni, infatti, della frequentazione di quella che può essere considerata, senza dubbio, l’élite culturale di Roma: quelli che Avanessian chiama affettuosamente – citando nemmeno troppo velatamente un celebre dipinto del suo maestro Bartoli – la “gente di caffè” sono, fra gli altri, lo stesso Amerigo Bartoli, Massimo Campigli, Ercole Patti, l’editore Alfredo Curcio, il giornalista di «Paese Sera» Franco Monicelli (fratello del più celebre regista, Mario), Achille Campanile, il gallerista Salvatore Russo, il conte Saffi. Un gruppo decisamente eterogeneo che alla fine della giornata di lavoro si riuniva abitualmente nei caffè di via Veneto o in qualche trattoria romana, come da “Mamma Santa” nei pressi di corso Trieste, consigliata proprio da Avanessian perché «si spendeva poco e vi si mangiava bene, molto meglio di quella friggitoria vicino via Salaria dove voleva andare sempre Bartoli». Avanessian è il più giovane del gruppo e questo gli fa guadagnare l’affettuoso soprannome di “signorino” da parte degli intellettuali più anziani: un periodo importante, ricco di esperienze e di vita, e lo stesso artista è una continua fonte di racconti ed aneddoti. Sembra quasi di esserci anche noi, quando racconta degli scherzi bonari compiuti alle spalle del semplice Ercolino, sorta di mascotte dei pittori di via Margutta o di quella volta che, per una questione di “precedenze”, fu costretto a cambiare il sarto dal quale lui stesso aveva portato i colleghi; o di quell’altra volta lì, quando si ritrovò davanti alla porta il fabbro che tentava di far entrare nel suo appartamento gli amici preoccupati per una sua ingiustificata assenza (in realtà – come spesso accade – c’era “semplicemente” di mezzo una fanciulla) o quando, ridendone divertito ancora oggi, ricorda gli scherzi telefonici il mattino seguente le innumerevoli cene e serate in compagnia che puntellano con regolare frequenza lo scorrere di quegli anni.
Sono anche gli anni dell’intensa amicizia con Pietro Scarpellini e con la moglie Rosalba Barbanti, con i quali lavora ed espone: insieme si recano a dipingere dal vero a Tor di Quinto e non avendo lo spazio necessario dove riporre le tele sono costretti a chiedere ai proprietari delle osterie della zona di conservarle per loro. L’appartamento di viale delle Milizie che Avanessian divide con due amici musicisti, anche se buio e poco adatto per dipingere, è comunque un punto di incontro e l’artista stesso (grande amante della musica, forse ancor più della pittura stessa) ricorda con grande nostalgia il periodo in cui venivano a suonare abitualmente altri musicisti a formare un improvvisato quartetto d’archi.

Le Esposizioni

A partire dalla metà degli anni ’50 la presenza di Alfonso Avanessian sulla scena artistica nazionale è pressoché costante e per tutta la sua lunga carriera, sin dalla prima personale presso la romana Galleria San Marco nel 1954, si susseguono senza interruzione mostre personali e gli inviti a partecipare alle principali esposizioni nazionali ed internazionali: fra queste si ricordano, in particolare, la Mostra Nazionale di Spoleto (che lo vede presente nelle edizioni del 1954, 1955, 1956), la Biennale di Venezia del 1958 (in quest’occasione presenta il famoso ritratto La sora Rosa) e la Rassegna di Arti Figurative di Roma e del Lazio (1958, 1959, 1961). Numerosi anche i riconoscimenti ottenuti, fra cui il Premio Olevano (1955), il Premio Pontedera (1957), il premio presso l’edizione del 1960 di Maggio Bari e, nello stesso anno, alla Mostra Nazionale d’Arte Contemporanea di San Benedetto del Tronto; nel 1962 vince il premio alla Mostra Nazionale di Arezzo e nel 1965 il Premio Cardarelli. Ancora nel 1991 è il vincitore del Premio Polifemo.
Nel 1955, in occasione della personale presso la Galleria L’Aureliana di Roma, è presentato in catalogo da Renato Guttuso, il quale ne sottolinea in particolare, osservandone i paesaggi, quell’«amore del mondo, delle cose, del colore di un cielo, del chinarsi di un albero, dell’intersecarsi di due tetti; amore di pittura non in sé per sé [...] ma connesso alla visione» (Renato Guttuso, dall’introduzione al catalogo). La critica accoglie con entusiasmo l’esposizione, caratterizzata da una visione in cui l’«amore pensoso per la natura, freschezza di sentimento e serietà, chiarezza e profondità di visione fanno sostanziosa questa pittura dai toni vigorosi, pacati, fermi, dalla rapida asciutta pennellata, che negli interstizi lasciati a “grezzo”, tra le campiture concentra luminosità sottili e cariche di vibrazioni» (Vice, Alfonso Avanessian,in «Il Giornale d’Italia», 23 novembre 1955).
A seguito di questa mostra Avanessian è invitato nel salotto dell’editore Casini, dove ha modo di conoscere personalmente Ardengo Soffici: è con un lieve vena di nostalgia ed ammirazione che Avanessian racconta, ancora oggi, di quella importante serata, al termine della quale Soffici lo riaccompagnò a piedi a casa, a viale delle Milizie, chiacchierando amabilmente per tutto il tragitto di arte e pittura.
Pochi anni più tardi è ancora un nome della scena artistica “che conta” a presentarlo al pubblico: dopo Guttuso è, infatti, Mino Maccari ad introdurre la personale presso la Galleria Il Vantaggio nel 1961. Ancora una volta è la brillante padronanza dei mezzi espressivi del giovane artista (all’epoca ventottenne) ad essere evidenziata, il «disegno sicuro, preciso, sintetico; la franca stesura degli impasti; l’armonia tonale» dei paesaggi, che sono il pezzo forte dell’esposizione (Mino Maccari, dall’introduzione al catalogo).
Ed è proprio in questi sobri paesaggi, nel loro perfetto equilibrio fra forma e tono, fra linea e volume, che si colgono lievi ricordi della terra d’origine, dei colori e della limpida luce mediterranea, filtrati attraverso le prime importanti esperienze romane. Ma, pur avendone respirato il clima, non è propriamente la Scuola Romana ad influenzare Avanessian, se non nell’interesse per alcuni tagli di paesaggio, per certi soggetti o periferie: in lui «manca quell’acceso, sensuale, vespertino gioco di magici toni materici; c’è quasi uno sfarfalleggiare sciabolante più arreso, e malinconico, di toni azzurri, blu, ocra, rosa, verdi, viola, una pittura magra, veloce, che si avvicina a certi pittori veneti del Novecento» (Franco Simongini, I pudori gentili di Avanessian, in «Il Tempo», 14 aprile 1989).
Oltre alle mostre personali (Padova, Università Popolare, 1962) Avanessian partecipa in questi anni anche a diverse esposizioni collettive, fra cui l’Antologica di Artisti Romani presso il Palazzo delle Esposizioni di Roma del 1963.
A metà degli anni ’60, quando la sua posizione all’interno della scena artistica romana è ormai ben consolidata, Alfonso Avanessian inizia la proficua e decennale collaborazione con i galleristi romani Russo, Ettore ed Antonio e, in particolare, con l’ingegner Salvatore. Sin dalla personale alla Galleria Lo Scalino, nel 1966, il successo di pubblico è tale che Avanessian realizza anche quattro, cinque quadri al mese per soddisfare le richieste della clientela: sono in particolare i paesaggi dall’apparente impianto impressionistico, risolti per masse tonali più vicine alla pittura fauve e le ricche nature morte ad attrarre, tanto che, scherzando, Avanessian ricorda come in quel periodo vendesse «fiori e frutta a chili».
Particolarmente ricco di esperienze il 1968, che lo vede presente con ben cinque mostre personali: nuovamente a Roma, alla Galleria Lo Scalino, ma anche a Padova (Galleria Antenore), Cagliari (Galleria degli Artisti), Rovigo (Galleria Alexandra) e Catanzaro (Centro d’Arte Il pozzo). Quest’ultima esposizione, in particolare, è dedicata ai paesaggi realizzati dall’artista durante i due mesi di permanenza in Calabria. L’anno seguente, 1969, è invece la volta di Salsomaggiore, con l’esposizione presso la Galleria La Barcaccia.
Decisamente intenso anche l’intero decennio 1970-1979 con numerose personali a Padova (Galleria Antenore, 1971), Roma (Galleria Lo Scalino, 1971 e 1974), Bologna (Galleria Il Nettuno, 1972), Ancona (Galleria dei Portici, 1972), Salsomaggiore (Galleria La Barcaccia, 1974 e 1977).
Nel 1976 la personale milanese presso la Galleria Medea è presentata da Massimo Carrà: a questa nuova fase di ricerca, che si fa forza di «un cromatismo più sciolto e a una linea più risentita, nella persistenza di attente preoccupazioni tonali: dove interviene comunque l’uso della luce determinante a definire la forma. […] realismo sintetico e rarefatto cui fa riscontro talora (specialmente nei paesaggi) un fitto reticolo di segni perentori, nervosi, spesso aspramente sottolineati dalle pennellate guizzanti», è riconosciuto il fervore dell’impegno rigoroso e durevole, che traduce «ogni impulso emotivo in termini di pittura, in luce, forma e colore, e soltanto in questi» (Massimo Carrà, dall’introduzione al catalogo). Sono paesaggi intensi, quelli esposti, in cui l’olio poco pastoso, steso velocemente, lascia spesso a vista la preparazione della tela di fondo.
Intensamente sentiti anche i paesaggi del cosiddetto ciclo dell’estate in Puglia (che segue, seppur a distanza di qualche anno, quello già dedicato alle vedute calabresi e precede il periodo umbro), esposto in un’importante retrospettiva alla Galleria Lo Scalino di Salsomaggiore fra il maggio ed il giugno del 1978, il cui catalogo è curato da Mario Picchi.
Negli anni ’80 la brillante carriera espositiva di Avanessian non conosce interruzioni e le personali si susseguono fra Roma (Galleria La Vetrata, 1981, 1984 e 1987; Galleria Fidia, 1982), Taranto (Galleria Il Tripode, 1982; Galleria Il Faro, 1985) e Cagliari (Club d’Arte Michelangelo, 1983); del 1986 ed al 1989 sono inoltre le due importanti retrospettive allestite ancora una volta a Roma, presso la Galleria F. Russo.
Sono questi gli anni delle vedute umbre, dei paesaggi della Valnerina, gli anni della «piena maturità stilistica, riferibile ad una resa pittorica di salda calibratura, che nulla perde della sua oggettiva razionalità, quanto a filtro di cromia ed ordinato congegno d’impaginazione, pur nel disporsi dell’intera visione ad un esodo sottilmente incantato, di natura lirica [...] è il colore, in effetti, che rende viva e nobile l’ipotesi prima accennata, scorporando la realtà da tutte le variazioni accidentali e vestendole di stupore onirico» (Renato Civello, Avanessian per una ipotesi di pittura, in «Il Secolo d’Italia», 6 marzo 1982).
Nel 1992 i quarant’anni di attività dell’artista sono celebrati con la bella mostra antologica presso la Galleria F. Russo: in quest’occasione sono esposte le principali opere dell’artista, dalla già citata Sora Rosa della Biennale del 1953 fino agli ultimi paesaggi pugliesi, datati 1991.
Ancora una monografica alla galleria Russo, interamente dedicata agli acquarelli dell’artista, è inaugurata nell’aprile 1993, mentre un’altra personale è allestita l’anno seguente nell’ambito dell’edizione 1994 della Primavera Romana dell’Argam; nel 1996 Avanessian espone a Ferrara, presso la Galleria d’Arte Tortora.
Durante la sua lunga carriera Avanessian, pur rimanendo fedele a certi temi e soggetti, si è interessato anche alla pittura astratta e all’informale, Picasso è stato naturalmente fra i suoi modelli, ma alla fine la scelta è ricaduta sempre sulla pittura figurativa: nonostante la curiosità con la quale guarda ad alcuni fenomeni (ad esempio Pollock) non è mai stato veramente interessato alle performances, alle commistioni fra arte e musica, tanto che ancora oggi dichiara che «tutto è già stato inventato, per fare oggi qualche cosa di personale bisogna ritornare a studiare il vero e l’antico». Ed infatti, come brillantemente ricorda ancora Renato Civello, «anche lui ha, contro le legioni infauste del disperdimento e della dissacrazione, un concetto elevato della classicità, quale argine alla perdita di coerenza e recupero di un umanesimo totale»: il suo è un «messaggio classicamente severo, niente affatto umiliato dal riflusso dell’intellettualismo. Il vaglio razionale in questi dipinti non è mai spinto alle estreme conseguenze. Domina in essi il tessuto sentimentale e lirico, domina il buon gusto» (Renato Civello, Avanessian il paese dell’anima, in «Il Secolo d’Italia», 9 aprile 1984). Forse è proprio questo che fa sì che i suoi rapporti con gli allievi della cattedra della Scuola Libera del Nudo dell’Accademia di Belle Arti, di cui è oggi il decano, siano improntati alla massima libertà di espressione e sperimentazione, riconoscendo peraltro all’insegnamento accademico la diminuzione di importanza rispetto agli anni della sua personale formazione, ma anche l’essenziale ruolo di confronto fra i giovani artisti.
Nella sua ultima produzione Avanessian, pur rimanendo fedele ai temi di sempre, ha raggiunto una maggiore organizzazione compositiva, realizzando paesaggi più strutturati e compatti, ma sempre osservati con sguardo discreto. Ed è proprio attraverso lo sguardo di quest’artista dall’animo sensibile che ha saputo ascoltare ed imparare, uno sguardo limpido e sorridente, scanzonato e arguto, che vediamo scorrere – come in un film, fatto di scene e battute – un pezzetto di storia della pittura italiana e romana in particolare, quella storia troppo spesso letta solamente sui libri, della quale Avanessian rimane oggi il più sincero, attento e brillante continuatore.

Contatti

Alfonso Avanessian c/o GALLERIA F. RUSSO
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Tel. 06-6789949, telefax 06-69920692
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